domenica 6 maggio 2018

L'Isola dei Cani – Wes Anderson

Wes Anderson continua a macinare film indimenticabili, come solo lui sa fare, film inattuali, perfetti per ogni tempo.
in questo maggio in cui si celebrano i 50 anni del '68 francese, L'Isola dei Cani è un film perfetto per ricordare quello spirito, anche se parla del Giappone, di cani ed è un film d'animazione.
eppure è un film politico, c'è il conflitto e la liberazione, e una storia bellissima.
ringrazierai Wes Anderson, dopo aver visto il film, altrimenti non sai cosa ti perdi - Ismaele




Qui una bella intervista a Wes Anderson



…Un film che riflette, con tutta l'ironia del caso, su tematiche come la discriminazione, il complotto contro la massa, la comunicazione mediatica come strumento di condizionamento delle menti.
Un'altro lavoro riuscito, e l'ulteriore conferma della originalità e della potenza espressiva di un grande autore, che sa di poter contare su una squadra di autori e collaboratori, ovvero anche di attori, di primissima qualità, con i quali ha saputo creare un gruppo in grado di dar vita solo ed unicamente a cose belle ed intelligenti. Onore al merito!

Diviso in quattro atti, L’isola dei cani segue l’avventura del ragazzino Atari, catapultatosi sull’isola-prigione per rintracciare il suo adorato cane Spot. E di un branco di cani, uniti da un patto di reciproco aiuto per sopravvvere in quel fetido postaccio, che di Atari diventano gli alleati. Loro leader è Chief, randagio duro e tosto che non ha mai conosciuto l’affetto di un buon padrone, anzi master. Ci metterà del suo anche un gruppo anarchico che si ribella al perfido Kobayashi agitando la causa della liberazione canina. Succederanno molte cose, ma quel che conta è il viaggio visivo, al limite del lisergico, in cui ci fionda Wes Anderson. Lo adoreranno tutti questo film, a parte qualche critico malmostoso. E godiamoci la profusione di bello che un signore toccato dalla grazia ci sa dare anche questa volta. Cercate di vederlo in orginale, ocn le voci di Bryan Cranston, Bill Murray, Tilda Swinton, Scarlet Johansson, Geta Gerwig e Frabces McDormand. I fedelissimi Roman Coppola e Jason Schwartzman alla sceneggiatura. Musiche stavolta sopportabili di Alexandre Desplat. Nei credits finali si ringrazia, tra i molti, anche Bud Cort. Che sia l’attore dei remoti Anche gli uccelli uccidono di Robert Altman e Harold e Maude di Hal Ashby? Presentato in prima mondiale alla scorsa Belrinale, a Isle of Dogs avrebbero dovuto dare l’Orso d’oro, andato invece sciaguratamente all’orrendo Touch Me Not. Wes Anderson si è dovuto accontentare dell’Orso d’argento per la migliore regia, e la cosa grida ancora vendetta.

Gli omaggi di Anderson e dei suoi co-sceneggiatori al Giappone sono, come si diceva, pressoché infiniti: da Atari a Kurosawa, dal sushi a Miyazaki, dal manga al sumo, tanto che dalla sceneggiatura in giù il regista ha voluto dotarsi di una sequela di esperti per legittimarsi in termini di correttezza etnico-politica. 
E l’eccesso di correttezza è forse il limite maggiore di questo film: correttezza politica, correttezza ecologica, correttezza etnica, correttezza di genere (la donna “romantica”, ma poi anche la donna politicamente attiva). Persino Kobayashi, alla fine, si redime. 
Per finire però ci sarebbe da aprire tutto un discorso su quanto una pellicola che nasce come un film distopico-fantasy presenti non abbia finito - nell’arco degli ultimi due anni e mezzo, da quando cioè è stata progettata - per assumere tratti di paradossale realismo: democrazia solo formale e populismo, migrazioni ed espulsioni. Ognuno può decidere liberamente fino a dove estendere i propri campi associativi.

nonostante tocchi tematiche intime, sociali e famigliari decisamente profonde, la storia non abbandona mai il taglio favolistico. Prosegue diritta, senza troppi giri di parole né sorprese, ma risultando sempre gradevolissima. Oddio, forse la rappresentazione della cultura giapponese nel complesso è un po’ stereotipata, ma tutto sommato non è certo l’unica semplificazione di un film scritto e diretto da un americano che non fa nulla per nascondere la propria provenienza, e che in passato ha già adoperato stereotipi, anche occidentali, per esigenze di racconto o estetiche.
Di tutt’altro avviso sono l’impianto visivo e la messa in scena, che si fanno carico di tutta la complessità che la trama sceglie di dribblare.
L’isola dei cani non spreca un millimetro di spazio, riempiendo ogni singola inquadratura con dozzine di dettagli fantastici, colori e geometrie perfette. Tutto quanto scorre in continuazione, perlopiù sul piano orizzontale o su quello verticale. O su entrambi, contemporaneamente. Persino quando il livello che ospita la narrazione sembra statico, nove volte su dieci basta spostare lo sguardo su un altro punto dello schermo per scoprire che c’è della roba che sta andando per conto suo, o per notare e apprezzare questo o quell’altro effetto di parallasse.
Insomma, la forma del film è anche la sua sostanza…

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