giovedì 9 novembre 2017

come a Teheran

Lech Kowalski, la mia «colpa» è fare film - Cristina Piccino

Il prossimo 15 novembre, all’udienza preliminare fissata a Gueret, nella Creuse, nord est della Francia, Lech Kowalski si dichiarerà davanti al pubblico ministero «non colpevole» all’accusa di «ribellione» che gli è stata imputata. «L’unica cosa di cui sono colpevole è fare film» dice al telefono, una cosa del tutto normale per un cineasta che da almeno quarant’anni filma il mondo cercandone crepe e conflitti. E invece no, filmare nella democratica Francia macroniana è passibile di incriminazione.
Lo scorso 20 settembre Kowalski è a Gueret, insieme agli operai della GM&S, una fabbrica di componenti per automobili (realizzati per lo più per Peugeot e Renault) in liquidazione su cui sta realizzando un film coprodotto da Arte. Hanno occupato la fabbrica mesi prima per protestare contro la chiusura, lui dallo scorso aprile accompagna con la sua macchina da presa, giorno dopo giorno la loro battaglia. «Volevo essergli vicino il più possibile per mostrare dal loro punto di vista i motivi per cui lottano. Al di là del caso specifico quanto accade alla GM&S mette in luce con chiarezza gli effetti della globalizzazione e la fine della classe media» dice ancora Kowalski.
Così quella mattina è anche lui alla prefettura dove gli operai hanno ottenuto, seppure in videoconferenza, un appuntamento col ministero del lavoro. Nei giorni precedenti sono arrivate le prime lettere di licenziamento, la nuova proprietà tace ma non sembra intenzionata ad avviare trattative, il governo ostenta sufficienza. «Alcuni di questi operai lavorano lì da quarant’anni e l’unica risposta ottenuta da Macron è stata quella di cercare un altro posto. Che possibilità ci sono per loro sul mercato di oggi? Nessuna. A cinquant’anni si battono per mantenere la dignità della propria esistenza ottenuta dopo anni e anni di fatiche». A un certo punto la polizia intima a Kowalski e agli altri media presenti sul posto di uscire dall’edificio. Lui rifiuta e un’ora e mezza dopo viene arrestato. Interrogatorio, impronte digitali, foto segnaletica, dna. E la notte in cella, «2 metri e mezzo per uno» come scrive in un lungo comunicato diffuso qualche giorno fa. Adesso se le accuse verranno convalidate dovrà subire il processo rischiando una multa fino a 35000 euro e due anni di prigione.
Cosa è successo a Gueret?
Ero insieme agli operai alla prefettura. Erano molto delusi così hanno deciso di occupare l’edificio in un tentativo disperato di scuotere il sistema dall’indifferenza. Io ero nell’atrio insieme a altri media, c’era anche un operatore di France 2. A quel punto i gendarmi ci hanno chiesto di uscire e io gli ho domandato: «Perché devo andarmene?». Avevo filmato altre azioni, e non capivo per quale ragione stavolta non potevo farlo. Ho detto che non sarei uscito, a quel punto i poliziotti sono diventati più aggressivi, hanno cominciato a spingerci fuori, mi hanno messo le mani sulla macchina da presa e hanno rotto il microfono. Io ho continuato a filmare.
Che dicevano i poliziotti?
Mi accusavano di fare resistenza. Io gli ho detto che erano dei fascisti, conosco bene il senso di questa parola, i miei genitori che erano polacchi hanno combattuto il nazismo … La cosa strana è che non mi hanno arrestato durante lo sgombero ma un’ora e mezzo dopo, mentre eravamo lì davanti sono arrivati, mi hanno caricato sul cellulare togliendomi la telecamera. France 2 ha cercato di riprendere ma li hanno bloccati.
E dopo?
Mi hanno interrogato, sono rimasto in cella tutta la notte e il prossimo 15 novembre dovrò rispondere al pubblico ministero di un’ infrazione alla legge che non sussiste. La mia sola «colpa«, appunto, è di avere filmato. I poliziotti non tollerano lo sguardo dei media laddove non vogliono che rimangano tracce del loro operato.
Che tipo di fabbrica è la GM&S? E cosa ne sarà ora?
Sessanta persone su 280 hanno già perso il lavoro e non si conoscono le intenzioni della nuova proprietà. La GM&S era una fabbrica molto importante per l’economia della regione, la sua parabola ci fa capire la posizione del governo francese verso le multinazionali: queste ultime dettano legge anche se significa smantellare un po’ alla volta tutti i diritti dei lavoratori.
È una politica che ormai sembra riguardare tutta l’Europa e l’occidente.
Ecco perché dico che quanto è accaduto alla GM&S va al di là della situazione specifica; la battaglia di quegli operai racconta la globalizzazione nel mondo di oggi e la fine della classe media. Le multinazionali stanno distruggendo un tessuto sociale e i governi con le loro politiche le appoggiano. L’unico obiettivo è il profitto, la vita delle persone non importa a nessuno. La Renault va a produrre in India, fa automobili indiane che gli costano di meno e le rivende allo stesso prezzo. Ma poi qui tutta la gente che è rimasta disoccupata come può comprarle? La distruzione delle economie porta a una infelicità diffusa e la democrazia appare sempre più illusoria. C’è un aspetto molto interessante in tutta la storia della GM&S, verso la fine quando gli operai hanno capito che avrebbero perso la loro battaglia hanno acquistato una maggiore consapevolezza, sono diventati più militanti. Era come se la lotta fosse all’improvviso più importante dei risultati permettendogli di scoprire un diverso senso della realtà e dell’esistenza. Fare un film su persone che lottano e che cercano di dare un po’ di speranza è un modo per dire che opporsi a questo sistema è ancora possibile, che si possono inventare delle azioni per costruire qualcosa insieme, che ci possono essere degli obiettivi condivisi.
In qualche modo la tua esperienza ci dice anche che l’immagine è un’arma che spaventa in un’epoca in cui tutto sembra visibile, ogni evento è filmato e circola in rete mentre avviene.
Le autorità, i gendarmi erano infastiditi dalla mia presenza. Il punto è che noi su youtube vediamo tante cose ma io volevo riprendere quei dettagli che rimangono fuoricampo. Filmare gli homeless, la gente che cerca di sopravvivere per certi aspetti è più semplice. Coloro che detengono il potere hanno invece molta paura di essere ripresi. Con questo film ho rotto un muro e guardato dentro, dove viene determinato il processo economico, politico, sociale. Ne ho mostrato il volto – le autorità, i poliziotti, i nuovi proprietari, i loro avvocati – e l’agire. E l’ho fatto in modo diverso, a partire dalla relazione con gli operai, cercando di illuminare i motivi che stanno all’origine di tutto. Ma è questo che mi interessa, andare oltre la facciata, mostrare come la società e la sua rappresentazione possono essere manipolate.
É la scommessa del cinema nel confronto con la realtà.
Ti faccio un esempio: filmare la miseria in Africa è semplicistico se non si va a cercare il potere che la determina. Per farlo ci vuole un diverso livello di creatività. Ciò che più mi interessa è trovare un’estetica che tenga insieme quello che ho filmato e la dichiarazione di un punto di vista in modo straordinario, capace di raggiungere le persone non solo con le informazioni ma attraverso un approccio estetico, un coinvolgimento.



Il Pumminale - regia di Lech Kowalski, canta Vinicio Capossela


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