sabato 16 settembre 2017

Ancora su «Dunkirk». E sulle polemiche - Giuliano Spagnul




Contrariamente a quanto si credeva negli anni Settanta1
i primati aggrediscono non solo per difendersi, nutrirsi,
accoppiarsi, ma anche per circoscrivere il territorio,
stabilire domini di possesso su beni e risorse, mantenere
stabili le strutture sociali e le gerarchie dei gruppi.
Forse anche solo per il ‘naturale’ piacere ‘culturale’
di uccidere.”
Antonino Pennisi e Alessandra Falzone2

Mettendo a confronto due recensioni del film «Dunkirk» di Christopher Nolan, uscito da poco nelle sale, quella di Goffredo Fofie quella di Wu Ming 4 si è sottoposti a un particolare effetto straniante dovuto a due critiche opposte ma con un forte presupposto comune: l’estrema preoccupazione per un mondo che sempre più va perdendo la propria vocazione umanistica a discapito di un sempre più devastante dominio della macchina e dell’antiumano. Se per Fofi il film ha una “visione antiumanistica (e antipacifista)” per Wu Ming 4 esso esemplifica la lotta dell’”umanesimo contro l’antiumano”. Un giudizio talmente contrastante che in un commento a Wu Ming viene detto di Fofi: “uno che mi sembra aver visto un altro film rispetto a noi…”. Personalmente dopo aver letto le due recensioni non ho saputo resistere e ho ceduto alla tentazione di andare a vedere questo film di guerra, un nuovo war movie dopo le ubriacature del genere durante gli anni Sessanta coi loro ultimi ponti, battaglie di giganti e epiche storie di gente comune trasformate in guerrieri onnipotenti o cacasotto a seconda dei casi. E in fondo non ne sono rimasto deluso. Un esaltante ritorno ai miei amati soldatini d’infanzia, con le loro guerre e immaginifiche crudeltà varie. L’unico problema è che in questo film, forse, si è esagerato un pochino. Il ‘naturale’ piacere ‘culturale’ di uccidere qui rischia di pulsare nelle nostre vene bypassando in toto quei meccanismi ‘culturali’ altrettanto ‘naturali’ che ci permettono di assistere a uno spettacolo di mattanza con (almeno in parte) un auspicabile distacco critico. Le guerre, anche nei film più noiosamente patriottici o esplicitamente guerrafondai di una volta non potevano non suscitare un qualche giudizio; un pensiero su ciò che si stava vedendo – e, in una qualche misura, una certa pietas – alla fine di tutte quelle distruzioni e di quei morti, in un modo o nell’altro, non poteva non trasparire. «Dunkirk» invece è un insidioso veleno, molto efficace, che non poteva ingannare giusto una vecchia volpe come Fofi, ma evidentemente non ha risparmiato Wu Ming 4 né gli altri che sono intervenuti nei vari commenti. Non è in questione la collocazione del regista a destra piuttosto che a sinistra, né quali siano state le sue intenzioni (il suo presunto voler destoricizzare) quanto piuttosto la negazione assoluta della storia, di qualunque storia. Ci sono uomini, molti uomini, intrappolati in un buco, un cul de sac; vanno salvati, riportati a casa (casa o patria la questione non riesce a entusiasmarmi) per rigettarli poi nella lotta, nella riconquista della libertà minacciata. Come sono finiti lì, perché, a causa di chi e di cosa non ci deve interessare, ora non è il tempo delle domande ma dell’agire, del fare la cosa giusta, ed è qui che si vedrà chi ha le palle! È la morale clinteastwoodiana dell’eroismo umano inscritto in alcuni DNA e non in altri, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, dai quarti di nobiltà o altro. Sono eroi il soldato protagonista, il vecchio lupo di mare con suo figlio, il ragazzino che muore, il pilota dell’Air Force. Lo sono e lo saranno sempre, eroi non certo per caso. Gli altri fluttuano, un po’ vigliacchi, un po’ coraggiosi, comunque umani, da difendere nelle loro debolezze anche con pietose bugie (come quella al soldato che per la sua paura ha causato la morte del ragazzino). E poi? Poi non c’è nessun altro. Gli altri, i nemici non compaiono mai (solo le conseguenze delle loro azioni). “Sono del tutto invisibili e disincarnati. Non è dei tedeschi che vuole parlarci Nolan. Né di altri nemici particolari. Ciò che mostra è l’umanità sotto minaccia”. L’umanità, cioè noi, non gli altri! L’obiettivo è “restare umani (…) resistere alla paura e impedirle di trasformarci in bestie. Cioè nei nazisti di noi stessi”. Il bestiale è ricacciato negli altri che sono tornati bestie, perché il bestiale è quel passo indietro che, per chi non è eroe (e qui gli eroi sono da intendersi evidentemente per soggetti evoluti biologicamente in modo definitivo) è sempre una possibilità in agguato. Gli eroi diventano così il baluardo, il manipolo di sentinelle che ci difende dal possibile regresso; in definitiva ci difende dalla natura. Peccato che nella realtà evolutiva siano proprio gli animali (escludendo in parte proprio i primati più vicini a noi) a comportarsi meno “bestialmente”. In loro agiscono meccanismi istintivi, a salvaguardia dell’intera specie, che li inibiscono a infierire su un conspecifico (cioè della stessa specie) che si sia arreso. Così come possono trovarsi a doversi sacrificare, sempre per il bene della specie. È al contrario proprio la nostra evoluzione che ci allontana da tutto questo e mischia pericolosamente le carte, facendo sì che il nostro “umano” contenga anche il “disumano”. Quell’ “antiumano” che noi consideriamo tale per motivi valoriali, storicamente determinati, mai definiti una volta per tutte, e ‘naturali’ nella misura in cui siamo capaci di considerare natura e cultura indissolubilmente legate tra loro; sempre che adottiamo una visione materialistica e non dualistica della natura umana. Altrimenti, è ovvio, ci addentriamo in un discorso religioso e, con tutto il rispetto, qui taccio! Rimanendo sul ramo incerto su cui siamo seduti da alcuni secoli in qua, quello della ragione (da non intendersi come unico possibile strumento di conoscenza ma da cui non possiamo abdicare senza conseguenze catastrofiche) è essenziale interrogarci, oggi più che mai, sulle insidie di una visione essenzialista su ciò che definiamo umano piuttosto che antiumano. Barricarci su una presunta natura umana fissa, poco importa se storicamente raggiunta o aprioristicamente precostituita, vuol dire fare una scelta di campo, decidere chi sta di qua e chi di là. Inevitabilmente ricadiamo sul noi e gli altri, in cui il noi si basa sulla necessaria negazione dell’altro da noi. Ma come può succedere questo dopo tanto lavoro critico, fatto dalle generazioni passate, sulle pretese identitarie, sugli antropocentrismi, sulle ideologie escludenti ecc. «Dunkirk» ce lo mostra: con la liquidazione della storia. La guerra diventa un videogioco; le masse che vi partecipano, inermi e passive, reagiscono solo per ripararsi dalle bombe o per esultare alla vittoria degli aerei amici con un tifo da stadio;gli eroi corrono, si muovono, si salvano attraversando spazi da realtà virtuale. Nulla che possa ricordare le nostre esperienze reali, molto più povere ma concrete della nostra quotidianità. Alla fine l’eroe la cacca non la fa, inutile resto di un mondo ancora troppo concreto da cui allontanarsi in tutta fretta. “La musica roboante e invasiva, ossessiva, di Hans Zimmer, più sound che musica” (Fofi) fa il resto. La storia, la nostra storia, quella su cui si fonda, nel bene e nel male, la nostra civiltà occidentale, qui diventa zavorra di cui sbarazzarsi; d’altronde come ricordava Marc Bloch, poco prima di morire fucilato da concreti, molto reali e visibili nemici tedeschi: “anche le civilizzazioni, senza dubbio, possono mutare. Non è di per sé inconcepibile che un giorno la nostra si allontani dalla storia”6.

Nota 1: Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, 1973.
Nota 2: A: Pennisi e A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive. Il Mulino, 2010 p. 248
Nota 5: In un film del 1964 «Week end a Zuydcoote» di Henri Verneuil, le masse inermi dei soldati hanno una reazione più squisitamente “umana”, e senza coro da stadio, quando vedono scendere col paracadute il pilota tedesco che poco prima li aveva mitragliati: alzano i loro fucili e si fanno la loro giustizia sommaria. Chi di noi al loro posto avrebbe fatto altrimenti? Soliti eroi a parte ovviamente. Ma chi ci dice poi che quest’ultimi siano così autenticamente umani?
Nota 6: Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, 2009, p. 8.

2 commenti:

  1. Molto bene, condivido largamente ! Il film di Nolan è un buon film ma difetta di un chiaro punto di vista etico ed estetico.
    Si veda in proposito, se è lecito citarsi, il mio blog cinemacinemadipaolo.blogspot.com

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    1. non credo si possa chiede a un regista di fare un documentario, sono due cose diverse.
      intanto ti ho messo nella lista dei blog (blog roll, mi sembra la chiamino)

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