domenica 19 febbraio 2017

Manchester by the Sea - Kenneth Lonergan

mentre in La La Land sembra che ci sia il sole anche quando è notte, in Manchester by the Sea il sole non c'è mai.
Lee, il protagonista, è uno che parla poco, chiuso in un guscio oscuro.
vive solo, è un factotum, aggiusta di tutto, alle dipendenze del proprietario di alcuni palazzi, a Boston.
ritorna a Manchester, paesino della sua vita precedente, ritrova i fantasmi di prima.
la sceneggiatura svela piano piano cosa era successo in quel paese, dove tutti si conoscono e si guardano in faccia, gente di un altro tempo, nel bene e nel male, prima di facebook.
Lee riprende i contatti col nipote Patrick, devono stare molto insieme, e pensare al futuro.
il loro è un rapporto spigoloso, e però si vogliono bene, provano a capirsi.
insomma, è un film operaio, senza stelle ed effetti speciali.
non si viene incontro ai gusti dello spettatore, tocca a chi guarda provare a entrare in contatto con la storia di Lee.
un film che merita molto, buona visione - Ismaele








È una maturità stilistica vera, quella del nuovo Lonergan, tangibile in ogni scelta di dialogo, stacco di montaggio, attacco musicale, e responsabile del respiro autentico e contemporaneamente quasi letterario del film. D'altronde, la parola - la sua insufficienza e la sua estrema, umanissima necessità- sono parte fondamentale dell'impasto di Manchester by the sea. È il silenzio di Lee, nella prima parte, a costruire il suo personaggio: un'assenza di espressione verbale che lascia il posto solo episodicamente alla fuoriuscita di un turpiloquio che è furia repressa, disperazione compressa sotto vuoto. La vicinanza col ragazzo, alla quale Lee non può e non si vuole sottrarre, lo costringe a ritrovare lentamente la pratica del dialogo, ad uscire dal proprio sepolcro ambulante per mettersi nuovamente in relazione con qualcuno…

La vertigine del dolore, l’abisso della perdita e l’estenuante fatica di vivere nonostante tutto sono i grandi temi di un film dalla scrittura chirurgica, di straordinarie performance e di emozioni vere, non necessariamente tutte tristi. Si ride invece non poco in Manchester by the Sea e non ci si sorprende di meno per le traiettorie di una delle migliori sceneggiature prodotte dal cinema indie da un decennio a questa parte.
Dire quello che si può dire, che del resto è meglio tacere: sembra facile ma Lonergan riesce là dove tanti inciampano, aprire uno squarcio dentro il dolore e immediatamente dopo richiuderlo. Per capire senza farsi inghiottire.
E poi andare avanti.

Con l'intento di non perdersi nulla dei propri personaggi ma, anzi, preoccupandosi di valorizzarne il potenziale umano e drammaturgo, Lonergan colloca Lee e chi gli sta attorno all'interno di un contesto ambientale e scenografico minimale, che non offre altre informazioni (come il dettaglio del mare improvvisamente increspato o un cambio improvviso di luce) che non siano riferibili allo stato d'animo del momento; e poi ne potenzia la presenza scenica regalandogli un palcoscenico che gli consente di essere assoluti protagonisti grazie a una tecnica di ripresa che, limitando ampiezza e profondità di campo, e mantenendo la mdp all'altezza del soggetto scenico, impedisce allo spettatore di trovare altri motivi di interesse che non siano quelli indicati dalla volontà del regista. Un processo di sottrazione che, da un canto, metteva l'opera al riparo dalla retorica insita nella delicatezza dei temi trattati - il dolore, la perdita, il senso di colpa - e che, dall'altro, rischiava di farla risultare bloccata e priva di slanci. A evitare questo pericolo ci pensa soprattutto il montaggio di Jennifer Lame, che altera la successione degli avvenimenti considerati non più nella loro scansione cronologica ma secondo un tempo interiore e quindi emotivo, corrispondente a quello di Lee/Affleck che di "Manchester by the Sea", sono i veri e propri factotum del copione imbastito da Lonergan. Il quale, memore della lezione dei vari Risi, Germi e Monicelli realizza un melodramma struggente e appassionante che pur mantenendosi costantemente sulle note della tragedia vissuta da Chandler trova modo di alleggerire la tensione con momenti di ilarità che paradossalmente - ma non troppo - rendono ancora più credibile il calvario del protagonista. Preceduto dai rumors che lo danno tra i favoriti nella corsa ai prossimi Oscar, "Manchester by the Sea", per quanto ci riguarda, ha già un vincitore nella persona di Casey Affleck che, abbonato ai ruoli da perdente, tiene lontana la routine con una interpretazione sofferta e trattenuta che lo impone ai vertici della sua categoria.

…Sulla scia di Paterson di Jarmusch, prosegue questo interessante filone del cinema statunitense distante volutamente dalle retoriche hollywoodiane della Grande storia. Sono le piccole vicende a informare questa America senza orizzonti né bussole. E’ la perdita di orientamento che costringe certi registi a rifluire nello scandagliamento dell’intimità. Può rivelarsi, questa sottrazione, un impedimento alla comprensione della realtà. Eppure, Manchester by the sea si ferma un attimo prima dell’autocompiacimento. Aiutato, in questo, dalla notevole recitazione di Casey Affleck (fratello del più noto Ben), già notato in Interstellar, ma senza lasciare particolare ricordo. E invece, sorprendentemente, se il film rimane contenuto e, in qualche modo, realistico, è proprio grazie alla recitazione di Affleck, fastidioso e scostante, mai compiaciuto, e senza redenzione possibile. Non c’è serenità possibile dopo la tragedia. Ciò non toglie che la vita può essere ripresa, con una cicatrice in più. Questo il messaggio, che ci sentiamo di condividere.

No hay nada más reconfortante para el espíritu que contemplar a un hombre hecho pedazos. Casi como observar el crepitar del fuego en la chimenea desde la comodidad de nuestro sofá, la tragedia ajena es, sin miedo a equivocarnos, probablemente el recurso, el tema más socorrido en toda la producción artística de la Historia Universal. La presencia del conflicto, de la tensión, es absolutamente indispensable en una composición pictórica, literaria, musical o de cualquier otra disciplina, y otorga al espectador/receptor la doble posibilidad de dejarse sorprender ante resolución quizás inesperada, ya en el límite de la catarsis —efectividad demostrada, por ejemplo, en las novelas bizantinas del siglo XVI—, o bien la siempre agradable opción de erigirse juez de los hechos perpetrados por los personajes, parapetado, eso sí, entre la tranquilidad de hallarse ante una mera representación de un evento traumático o violento, desde donde saborear esa confusa mezcla de empatía, morbo y curiosidad antropológica. Todos estos procesos, claro, pasan prácticamente desapercibidos cuando nos enfrentamos por vez primera a la Obra. Las dos o tres horas de duración de un filme nos ofrecen la inmersión suficiente para postergar algún tiempo prudencial las metarreflexiones pertinentes que, todo sea dicho, no llegan a ocurrírsele a todo el mundo. Y, en un entorno como el actual, saturado hasta el límite de contenidos snuff disfrazado de periodismo, pornografía informativa y cataclismos sociopolíticos de proporciones bíblicas, ¿dónde pueden tanto el espectador como el artista encontrar los elementos, la inspiración para la obra? Por muy obvio que quizás pudiese sonar, el camino más corto entre dos puntos no es en este caso una línea recta, sino más bien el trazado curvilíneo de las narrativas minúsculas: la cotidianidad. ¿Es acaso tan revelador afirmar que el secreto, de entre todas las herramientas de algunas de las mejores películas de la década —L’avenir (Mia Hansen-Løve), o Paterson (Jim Jarmusch)— radica en recorrer el camino inverso al de la espectacularidad operística? La maquinaria cinematográfica estadounidense arrastra la difícil ambigüedad ética de preocuparse con una mano por firmar hiperbólicos excesos superheróicos, mientras con la otra ofrece lo que a priori parecería una ristra de modestos caprichos más bien alejados de la búsqueda del espectador medio, donde los mismos actores cobran una fracción ridícula honorarios, casi a modo simbólico, para dotar al producto final de un halo artesanal. Lo curioso es que, muy al contrario de estas vagas estimaciones, el cine de dramas intimistas ha cobrado un protagonismo progresivo…

È sceneggiatore prima che regista, Keneth Lonergan, e si vede. La sua messa in scena, al di là del fascino naturale dell’ambientazione, delle stradine innevate che si alternano ai malinconici paesaggi costieri, di una landscape che non chiede altro che di essere registrata dalla sua macchina da presa, è all’insegna della sobrietà e della trasparenza. Laddove può rinunciare al movimento di macchina, alla ricerca dell’inquadratura accattivante, alle scorciatoie emotive, il regista americano sceglie consapevolmente di farsi da parte. Lasciando gran parte del compito a una scrittura di notevole spessore, e ai suoi altrettanto efficaci interpreti. Se è vero che il timbro di recitazione di Casey Affleck può risultare in molti casi respingente, qui il suo approccio al personaggio è invero l’unico possibile: anch’esso all’insegna dell’understatement, delle lacerazioni non esplicite ma avvertibili, sotto il monocorde tono di voce del suo personaggio. Un carattere che trova l’ideale complemento in quello di un Lucas Hedges che con esso dà vita a un complicato gioco di avvicinamenti e respingimenti: gioco che certo non si esaurisce con i titoli di coda. Difendendo rabbiosamente il legame con un emblema familiare (quello della barca) che diviene ben più che il ricordo (seppur vivo e pulsante) di un affetto perduto…

2 commenti:

  1. Dicono sia bello. Qui lo davano al Consolato, ma me lo son perso. Invece La La Land non c'è rischio. Odio i musical!!!

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