mercoledì 15 giugno 2016

L'uomo che vide l'infinito - Matt Brown

chi non sa niente di Srinivasda Ramanujan, prima del film, o dopo, a piacere, può dare un'occhiata qui.
per quanto il film non sia perfetto, tutti lo dicono, quello che importa è che si sappia di Ramanujan.
gli attori sono bravi (Jeremy Irons e Dev Patel, fra gli altri), la storia è un dramma senza vie d'uscite, guerra, malattia, un amore bellissimo e tormentato, amicizia, razzismo.
un genio fra i colonizzatori, pochi intuiscono la sua immensa grandezza, di quanti geni così non si saprà mai niente, i sazi bianchi del primo mondo non li (ri)conoscono.
chissà cosa ne avrebbe scritto Frantz Fanon, della storia di Ramanujan.
intanto è al cinema, buona visione - Ismaele





Il regista vuole dimostrare di sentirsi molto a suo agio nello scrivere e raccontare questa storia; e il suo intento è quello di colpire, educatamente, i centri emotivi dello spettatore con intensità, per fortuna senza piagnistei.
Brown si centranta sulla vita persona del protagonista, giunto con innocenza e entusiasmo dall’India, con le statuette delle divinità e l’incenso e accolto con approssimazione grossolana. La matematica è inserita nei dialoghi con una certa disinvoltura, nonostante l’uso di alcuni stereotipi forzi e aggravi il film nel suo complesso. A colmare alcuni luoghi comuni ci pensa la bravura impetuosa di Jeremy Irons e Dev Patel…

Matthew Brown è anche sceneggiatore e qui adatta una storia vera già raccontata nel libro di Robert Kanigel. Ai colori accesi e spirituali del prologo in India alterna gli ambienti eleganti e grigi delle sale universitarie. Ma il tutto è raccontato senza correre il minimo rischio espressivo. Dov’è la magia della matematica? E il mistero dei numeri e del genio di Ramanujan? Sostanzialmente L’uomo che vide l’infinito è figlio di un cinema vecchio e molto descrittivo, che intrattiene senza emozionare sul serio. L’imprevedibilità del genio non si apre mai alla visione ma resta incastonata nelle bacheche di Cambridge. Alla fine Brown sembra riuscire meglio soprattutto nella ricostruzione dell’intellighenzia britannica degli anni ‘10, con il progressismo anticonformista di Hardy e Russell contrapposto all’ottusità accademica di un mondo agli albori del secolo breve. Ma è un mondo in cui il genio Ramanujan vuole entrare a tutti i costi, alla fine riuscendoci e completando un tragitto di maturazione sostanzialmente ambiguo, che sa molto di integrazione colonialista.

Resta, di questo L’uomo che vide l’infinito, la confezione sontuosa, tutta tesa ad evidenziare un contrasto insanabile tra i due contesti sociali che il film descrive: da una parte la realtà luminosa, ma contrassegnata da miserie e difficoltà, della terra natale del protagonista; dall’altra le cupe stanze dell’università britannica, spesso illuminate da ammalianti tonalità color seppia, custodi di una sapienza che il razzismo di gran parte dei loro abitanti vorrebbe avocare a sé in modo esclusivo. Se lo stesso tema della discriminazione è trattato dalla sceneggiatura in modo discontinuo ed intermittente, rendendo solo a tratti il disagio di un giovane colonizzato che cerca riscatto nella terra dei colonizzatori, più efficaci si rivelano le incursioni della storia (e di quel conflitto fin dall’inizio adombrato dalla trama) nel tessuto narrativo del film e nei suoi sviluppi. Per il resto, il film di Matthew Brown sceglie di adottare soluzioni narrative già abbondantemente sperimentate, semplificando oltremodo la figura del protagonista e le sue vicende (di sconcertante banalità la sottotrama familiare) e sacrificando le potenzialità del soggetto a una concezione standardizzata e preconfezionata del biopic. Si resta, al termine della visione, con la sensazione di aver solo sfiorato l’essenza di un personaggio molto più complesso, ingabbiato, insieme a tutta la sua vicenda, nelle maglie di un “formato” che non gli rende giustizia.

La relazione tra Hardy e Ramanujan si basa in modo fondamentale sulla teoria matematica; ma la matematica, nel film, compare pochissimo.  La ricostruzione d’ambiente è invece molto accurata, e Ivory è bravo a rendere quello strano intellettuale che fu Hardy. Ripete le parole della sua autobiografia, A Mathematician’s Apology (1940): «Ancora oggi nei momenti di depressione mi dico “Io ho fatto qualcosa che voi non sareste stati mai capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità”». È credibile nell’essere da un lato scostante, dall’altro capace di rendersi conto che ha davanti un fenomeno unico. È un continuo incontro-scontro quello fra lui e Ramanujan: l’uno ateo e l’altro convinto che le proprie intuizioni matematiche gli vengano direttamente dalla divinità che venera; l’uno un fine intellettuale e l’altro l’immigrato da un paese coloniale, senza istruzione.
Il regista impiega movimenti di macchina molto lenti, le riprese «circondano» i personaggi; siamo molto vicini ai protagonisti, quasi fossimo a teatro. Tutto molto preciso. Però… manca l’entusiasmo. Che cosa fa tutto il giorno Hardy, a parte aspettare che arrivi Ramanujan? E che fanno poi insieme? Si accenna alla mancata dimostrazione di Ramanujan della formula – tuttora sconosciuta – che genera tutti i numeri primi (questione essenziale nei problemi di sicurezza informatici). Mentre ottiene risultati fondamentali sulle partizioni (sia da solo che con Hardy), sulle serie, sul calcolo degli integrali e in tanti altri settori molti dei quali tuttora molto utili in una quantità di applicazioni della matematica…


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