sabato 20 settembre 2014

The Look of Silence - Joshua Oppenheimer


dopo The act of killing Joshua Oppenheimer continua la sua magnifica ossessione, raccontare dello sterminio di un milione di persone in Indonesia nel 1965.
(per un ripasso veloce di quella storia si può leggere Noam Chomsky, qui).
mentre "The act of killing" faceva parlare i carnefici, in "The Look of Silence"il centro sono le vittime, Adi, il fratello minore di Ramli (assassinato peggio di un animale), e i genitori, il padre ormai pronto a morire, e la madre ancora stravolta da quella perdita irrimediabile.
Adi cerca i carnefici, e li trova.
mentre nel primo film i carnefici, davanti agli amici e alla macchina da presa, erano dei vanagloriosi e orgogliosi del compito di boia svolto "per la patria", qui i carnefici sembrano vacillare, davanti a una persona, Adi, coinvolta in quella storia, che chiede loro conto del loro operato. 
gli assassini e i macellai sono orgogliosi del loro lavoro all'ingrosso, quando ogni vittima ha un nome e una storia allora qualche granello di sabbia crea problemi al meccanismo di morte.
non risolve niente, ma è una vendetta della vittima.
cercateli entrambi, il secondo in sala adesso, l'altro in dvd, raramente si girano film così, e miracolosamente qualche sala li ospita, approfittatene.
e non lasciate la sala fino a quando non avete visto l'ultimo titolo di coda, poi capirete il motivo - Ismaele

ps: a chi dice "ma i documentari..." ricordi che il cinema è nato coi documentari (
qui e qui)  







…Attraverso l'indagine non si cerca vendetta, ma si cerca di comprendere: anche per questo motivo vengono chiamati in causa i figli degli assassini. Le scene in cui Adi parla a questi uomini in presenza del genitore, responsabile dei massacri, sono agghiaccianti. Il più delle volte sono giovani che apprendono per la prima volta cosa sia stato il padre; qui gli sguardi di silenzio sono di paura e smarrimento. È il confronto tra due generazioni, il bilancio di una terribile eredità. 
La responsabilità di una generazione, l'impunità, il perdono: sono solo alcuni temi in quasi due ore di documentario. Il silenzio dello sguardo di Adi, pieno di domande senza risposta, è un urlo di dolore. "The Look of Silence" è puro cinema nel diventare testimonianza della Storia, non offrendo alcuno sconto neanche alle pesanti responsabilità americane. Diventa anche un'inchiesta pericolosa perché condotta nel territorio dei responsabili ancora in forza; questi ultimi tentano, infatti, più volte, di far breccia dell'anonimato di Adi facendo domande sulle sue origini e su chi fosse il fratello.

Poche volte si può scrivere di un capolavoro e questa è una delle poche volte. Oppenheimer racconta tutto ciò con una cinepresa fissa sui volti e con una fotografia dalle luci morbide che permette di evidenziare bene i colori caldi. Il grande merito del regista texano è di dirigere senza mai essere protagonista, lasciando andare avanti i vari intervstati, soffermandosi su di loro anche nelle pause e nei silenzi. Un grande documentario che diventa vera testimonianza di un passato che si vuole oscurare. Un brivido coglie lo spettatore sui titoli di coda: i tanti "anonimi" che scorrono sullo schermo fanno capire che il passato è ancora presente.
da qui

Era difficile eguagliare la forza, lo stupore e l'incredibile serie di eventi reali che sembrano scritti da uno sceneggiatore di The Act of Killing (senza dubbio uno dei migliori documentari degli ultimi anni), lo stesso però Joshua Oppenheimer ha scelto di non cambiare soggetto e di girare il suo documentario successivo esattamente intorno ai medesimi fatti, cambiando solo la prospettiva e la struttura. Non più un film i cui protagonisti siano i carnefici, incaricati di raccontarsi attraverso la candida brutalità con cui rievocano gesta efferate e mai punite, ma un uomo, parente di una vittima, che decide di andare personalmente a cercare il pentimento nei killer del fratello.
Il cambio è significativo, tanto che il tema di The Look of Silence è radicalmente diverso da quello di The Act of Killing (non più il rapporto tra senso di colpa represso e rievocazione della memoria attraverso la finzione ma quello tra responsabilità e rimozione della memoria) e anche il risultato lo è. Come dice il titolo a regnare nel film sono i silenzi che si stabiliscono tra i due interlocutori, chi chiede conto della tragedia e chi ne era responsabile, i secondi non parlano, si ammutoliscono, spesso non sanno che dire mentre il primo immobile attende anche un minimo segnale di pentimento…

Lo sguardo del silenzio è dunque sia quello degli assassini, che non hanno alcuna intenzione di ammettere responsabilità su ciò che avvenne, sia quella di Adi, costretto in un silenzio ottundente, doloroso, spazio bianco senza prospettive di fuga, né di rivalsa.
È il silenzio puro e inattaccabile anche della camera di Oppenheimer, tramite quasi paradossale tra due mondi collimanti eppure destinati a non rivolgersi mai la parola, ognuno ben pronto a difendere il proprio odio, la propria ineluttabile accettazione dei ruoli. Ma The Look of Silence rappresenta anche, a ben vedere, la vittoria/sconfitta del cinema nei confronti della Storia: una vittoria testimoniale che diventa sconfitta nel momento stesso in cui prende coscienza della propria scarsa capacità di modificare realmente il corso degli eventi. Resta dunque il documento, una volta di più scioccante, rabbioso e doloroso, su una delle più vergognose dimostrazione di potere dell’uomo sull’uomo che il mondo moderno possa ricordare. La potenza delle immagini, così scabre e mai alla ricerca dell’effetto fine a se stesso – come evidenzia l’insostenibile naturalezza con cui vengono messi in scena gli anziani genitori di Adi – diventa quasi insostenibile nel suo crescendo drammatico, atto di resistenza del cinema alle usure del tempo, ai ghiribizzi della memoria, alle convenienze e alle convenzioni.
Per questo motivo The Look of Silence riesce persino a sfondare l’animo e gli occhi dello spettatore ancor più del già essenziale The Act of Killing, ribadendo il ruolo di primaria importanza che Oppenheimer sta occupando nel panorama documentario internazionale. E questo fa passare in secondo piano qualsiasi premio che una giuria possa o meno decidere di assegnargli.

Nessuna spettacolarizzazione, nessuna presa di posizione, nessuna voce del regista, nulla, ma anche a livello visivo sto doc è davvero potentissimo, specie nelle piccole cose, che siano due mani che tagliano un peperone, un ponte, un fiume, dei bozzoli di farfalla che saltano in un pavimento.
Adi guarda tutti i video, Adi vuole sapere la verità, ad Adi non sta bene che anche a scuola si continui a dire che il massacro fu giusto perchè i comunisti erano crudeli e senza Dio. Sì perchè gli autori del massacro sono ancora vivi e vegeti, e comandano la nazione. Il clima è praticamente lo stesso di allora e la paura c'è, e tanta.
Ma Adi vuole semplicemente che gli assassini lo guardino in faccia e dicano ciò che vogliono.
Ed è qui uno dei punti di forza di questo straordinario doc.
Nelle varie interviste succede di tutto…

Joshua Oppenheimer's The Act of Killing is devastating because it doesn't offer any moral opposition to the glibly boastful first-hand accounts of Indonesian death squads; and his The Look of Silence is devastating because it does. A B-side to The Act of Killing but no mere Blue in the Face afterthought, The Look of Silence follows Adi, a 44-year-old door-to-door optometrist whose senile father is 103 and whose mother improbably claims to be around the same age. The father has forgotten but the mother has not that Adi was preceded by a brother, Ramli, who was killed during the "communist" purge (the picture reiterates that anyone who didn't immediately fall in line with the military dictatorship was tarred with the same brush, regardless of political or religious affiliation)--though "killed" somehow undersells his execution, a two-day ordeal that culminated in Ramli's castration. Adi watches Oppenheimer's footage of the murderers describing his brother's death in that animated, kids-playing way familiar from The Act of Killing, though these are not the same two "actors" who appeared in that film, underscoring that a desensitization to the atrocities committed has happened on a national, not individual, scale…

Un giovane uomo sui 45 anni ha avuto il fratello maggiore orrendamente torturato e ucciso, la vecchia madre, lucida e combattiva, e il vecchio padre ancora vivono, e lui, per sé e anche per loro, vuole sapere, ricostruire quello che è successo al fratello Ramli, chi lo ha ucciso, come, perché. Vuole che il misfatto venga tolta dall’ombra, torni visibile, in piena luce, diventi parte della storia, della memoria, della coscienza del villaggio (e forse dell’intero paese). Lo  vediamo come ipnotizzato di fronte a un video-intervista da lui girato dieci anni prima ai due uomini che hanno ucciso (a rate: squarciandogli il ventre e poi tagliandogli il pene) e buttato nel fiume Ramli. Lo vediamo ricontattare il capo della squadraccia omicida del paese, poi un altro boss dei massacratori. Nessun pentimento, in nessuno. Ripulire l’Indonesia dai comunisti era ai loro occhi missione doverosa, hanno ottemperato a degli ordini, si auttpercepiscono come eroi della patria (“Ci dovrebbero ricompensare, mandarci magari in crociera premio”). Vengono contattati anche i figli di un paio di assassini. Si dà voce all’unico sopravvissuto. Joshua Oppenheimer man mano compone il suo reticolo di relazioni tra chi sta dalla parte delle vittima per vincoli di parentele e amicizia, e chi sta dall’altra. Le vittime e i carnefici a confronto, faccia a faccia. Nessuno chiede perdono, nessuno peraltro chiede agli assassini di farlo. C’è qualche momento di vicinanza, la vedova di un carnefice turbata da quanto le viene rivelato, la figlia di un altro killer che abbraccia il fratello di chi è stato ucciso. Ma più in là non si va, non si può. Non lo consente il clima politico dell’Indonesia, di sicuro meno ferrigno di quello di allora, ma dove il massacro dei comunisti resta ancora tabù, e dove rivangare troppo nel passato può essere pericoloso. O forse è soprattutto la voglia, il bisogno di dimenticare e sopire – bisogno umano, troppo umano – il vero ostacolo. Se allontaniamo il cattivo pensiero che Oppenheimer abbia voluto girare il sequel di un film molto fortunato per sfruttarne la scia, The Look of Silence si rivela importante, fors’anche necessario…

Il governo indonesiano ha detto che grazie a The Act of Killing si potrebbe parlare in futuro di riconciliazione nazionale. Ma allo stesso tempo tu sei persona non grata in Indonesia. Non è una contraddizione?
Il governo, secondo me, è stato costretto a dire qualcosa. Non poteva negare il massacro perché The Act of Killing faceva vedere degli assassini che confessavano e quindi era fuori discussione che fosse vero. Dopo l’enorme successo di The Act of Killing, la famosa rivista politica indonesiana Tempo ha mandato 60 giornalisti in giro per il paese in cerca di altri Anwar Congo. Ne sono uscite fuori 75 pagine di testimonianze che poi sono diventate un libro. The Act of Killing è un esperienza replicabile. Il governo non può più dire che gli orrori sono giustificati e quindi è forzato a riconoscere i massacri ma allo stesso tempo non vogliono che uno straniero ficchi il naso nei loro affari. I media indonesiani si sono indignati rimarcando il fatto che il mio coregista e tanti miei collaboratori chiave sono indonesiani ma sotto forma di anonimato per proteggerli. E quindi non si tratta solo di un americano impiccione.
Com’è la situazione ora?
C’è una cultura dinamica che viene dai miei collaborati e dalla famiglia di Adi. Loro vivono al nord di Sumatra, un luogo lontano dal raggio di azione degli assassini. C’è una certa speranza perché è stato eletto il nuovo presidente Joko Widodo, il primo che non viene dall’alta società o dall’ambiente militare. E’ uno della classe media. Uno del popolo, si potrebbe dire. Lui dice che vuole occuparsi di diritti civili eppure ha assunto uno dei carnefici come vice presidente. Io non credo nei salvatori e non vedo in questo comportamento di Widodo una grande coerenza. Come puoi scegliere un carnefice come collaboratore importante per la transizione verso la riconciliazione? Sono realisticamente pessimista. Ma ho sempre speranza.
Ma a scuola si insegna ancora la bugia?
Sì e questo è assolutamente contraddittorio. Se il governo ora ammette che c’è stato una sorta di genocidio… allora perché negarlo a scuola davanti alle nuove generazioni? Questo è qualcosa che la società civile sta molto contestando.
E’ possibile fare questo film negli Stati Uniti?
E’ possibile fare un film critico nei confronti degli Stati Uniti della Guerra Fredda. Assolutamente sì. C’è una certa pigrizia adesso nei media per via del controllo della pubblicità nei confronti degli editori. Errol Morris mi ha chiamato e mi ha detto “Sto pensando a quello che accade quando non c’è giustizia e visto che tu hai affrontato bene questo argomento, ti vorrei attivo qui negli Stati Uniti ora. Non c’è giustizia qui perché la tortura è accettata così come le uccisioni dei droni decise dal governo. Appoggiamo regimi repressivi. Questa impunità è da risolvere”. Io gli ho risposto che sono interessato. Vorrei avere lo spazio e la libertà. Ci vuole tempo e libertà di sperimentare con il linguaggio cinematografico. E questo non possibile se non hai il final cut.

…Oppenheimer dimostra di amare la gente e le persone, e trasforma la cronaca in cinema con i suoi dettagli, i suoi primi piani e le sue delicatissime inquadrature fisse, con uno studio della luce più preciso e drammaturgico del precedente film ma non per questo arbitrario, invadente o banalmente enfatizzante. È un cinema bello, umano tanto nel calore dei corpi che nella terribile freddezza delle parole, un cinema che nonostante tutto richiama alla vita.
Sarebbe ora inutile soffermarsi troppo sull’analisi dell’elaborazione del dolore che il “protagonista” di The Look of Silence sviluppa nell’incontrare i criminali legalizzati che hanno assassinato il fratello, così come sull’assurda testardaggine di crudeli esecutori che non vogliono mai sentirsi pentiti o moralmente responsabili di quello che hanno fatto: bisogna lasciar parlare il film, che è commovente e durissimo, e che non potrà non conquistare e travolgere lo spettatore. La parola alle immagini, e che tutti possano godere di questo eccezionale prodotto che va oltre il documentario, e forse oltre il cinema stesso.

6 commenti:

  1. Per me questo unico documentario sul massacro indonesiano (perchè, tra un pò di tempo lo considereremo come un corpo unico) è una delle poche cose a cui la parola di cui spesso abuso, capolavoro, posso dirla senza avere i denti stretti.

    Col tempo leggerò tutte le rece che hai messo, di questo doc più leggi più scopri.
    La tua sempre ottima.

    Sono (siamo) rimasti impietriti ai titoli di coda.
    Ma ora mi metti il dubbio che non abbia aspettato l'ultimissimo.
    C'era qualcosa?

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    1. hai aspettato giusto, solo che io non l'ho scritto, tu sì :)

      anche secondo me è un film unico, nella prima parte lo sguardo è (sopratutto) sui carnefici, nella seconda parte lo sguardo è (sopratutto) sulle vittime.
      ed è un ottimo (e doloroso) vedere.

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  2. Ormai Joshua è una garanzia: regista incredibile, dotato di una sensibilità - umana e cinematografica - unica. Di questo, mi ha sorpreso soprattutto il lato metacinematografico, tant'è che credo di averlo apprezzato ancor più di tAcK.

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    1. chissà se sapeva cosa stava facendo...

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    2. Direi di sì. A tratti - ma vado a memoria, dovrei rivederlo - mi è sembrato quasi didascalico sulla metacinematografia, o quantomeno ricorsivo. Certo è che, visto il pubblico di oggi, un po' di ricorsività non guasta mai.

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    3. intendevo se immaginava che i film ottenessero un apprezzamento ecumenico, tranne in Indonesia...

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