mercoledì 7 novembre 2012

Harry Brown - Daniel Barber

un grandissimo Michael Caine e una brava e bella Emily Mortimer (era la fioraia Lisette in “Hugo Cabret) valgono da soli il film, una storia di vendetta del giustiziere solitario.
merita la visione, sicuro - Ismaele


Caine plays an old man with a dying wife. He lives in a London housing estate used by a drug gang as its own turf. Pedestrians are terrorized and beaten, drugs are openly sold, there are some areas understood as no-go. From his high window, Harry hears a car alarm and looks down to see the car's owner come out and be beaten by thugs. This is the daily reality.
Caine is a subtle actor who builds characters from the inside out. His voice has become so familiar over the years, that it's an old friend. In this film, he begins as a lonely, sad geezer, and gradually an earlier persona emerges, that of a British marine who served in Northern Ireland. All of that has been put in a box and locked away, he says, and thinks…

la principale réussite du film de Barber se résume à un nom : Michael Caine. Si les plus jeunes des spectateurs seront surpris de constater à quel point le majordome de Bruce Wayne a pris du galon depuis les « Batman » de Christopher Nolan, les autres choisiront plutôt de se reporter au rude Jack Carter de « La Loi du milieu » ou au babillant Milo Tindle du « Limier », avec ce plaisir délicat qu’il y a toujours à retrouver, sur grand écran, ces hommes tout aussi grands qui surent s’imposer par le corps et par la voix. Car Harry Brown n’est pas seulement un homme qui s’effondre ; c’est d’abord, et surtout, une carrure imposante dissimulée sous un long pardessus, un visage alerte comme au premier jour, des yeux qui trahissent une émotion sourde et nostalgique, et une voix, cette voix de stentor, à mi-chemin entre l’extravagant aventurier de « L’Homme qui voulut être roi » de John Huston et le professeur / paternel tout en contenance d’ « Inception », qui le temps d’un instant égaye de sa stable certitude l’environnement en déliquescence de son fils violeur de rêves. C’est bien cela, Michael Caine : une voix enveloppante qui mène et rassure les troupes lorsque le monde semble s’effondrer. Elle résonne encore tout au long de « Harry Brown », en Harry Brown, et au-delà.


…il film non decolla e non cattura in toto perché, probabilmente, “vuole” tutto e subito. Così i sopraccitati sprazzi di realtà concrete si rivelano zavorre: quella che poteva essere una chance di aprire l’opera al confronto virtuale con lo spettatore si rivela invece un fattore creatore di distanza tra l’opera e chi la fruisce. Come esempio del problema, nonostante la viscerale fascinazione che potrebbe scatenare il personaggio di Brown (paragonabile a quasi tutti i supereroi e paladini), nonostante la quasi certa ammirazione e affezione del pubblico nei confronti di Sir Caine (che, vale la pena ripetere, regala una performance di altissimo livello), bene, nonostante tutto questo, l’immedesimazione spettatoriale col protagonista tarda ad arrivare e se si manifesta lo fa in maniera molto sfuggente: non si riesce a scivolare comodamente “dentro Harry Brown”.
A suo modo, anche questa fascinazione latente è però una forma d’apertura del testo. Dubitare, criticare ciò che viene fruito è operazione degna di lode, ma soprattutto segno di una visione di per sé stessa problematica e quindi “ricca e arricchente”: ma dal punto di vista di Barber, o più in generale, da quello della forma mentis che dà forma all’opera “Harry Brown”, si tratta di un fallimento. Lo stile pubblicitario applicato al cinema, almeno questa volta, non ha avuto buon esito. Senza considerare nemmeno da lontano le implicazioni culturali del film (il protagonista è un fascista? Fa bene o no a diventare un vigilante?
Ne ha il diritto? Lo Stato può permettere una cosa simile?), l’operazione non va a buon fine perché non riesce a catturare lo spettatore al 100%, proprio per colpa della sua caratterizzazione forte e dominante, che, però, non riesce a convincere chi guarda della bontà del prodotto “Harry Brown” con la stessa facilità con cui lo si convince dell’efficacia di uno shampoo o di una automobile. Sebbene, infatti, sia un prodotto con le cosiddette “carte in regola”, cinematograficamente superiore alla media, una visione probabilmente più avvincente e meglio strutturata rispetto a molti altri film comparabili (primo tra tutti, ad esempio, “Gran Torino”), ciononostante questa macchia alla base mina ogni salto effettivo di qualità del lungometraggio.
Fosse stato girato da un regista prettamente “cinematografico”, forse questo salto sarebbe arrivato senza troppi problemi.

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