venerdì 18 maggio 2018

Il dubbio - Un caso di coscienza - Vahid Jalilvand

colpa, responsabilità, rimorso, dubbio.
per tutto il film il dubbio è sulle cause della morte di un bambino.
intanto si vede che anche in Iran le classi esistono, e i poveri sono davvero brutti, sporchi e cattivi.
Kaveh provoca un piccolo incidente, che gli cambia la vita, Moosa, disperato, vuole vendicare il figlio e rischia di passare la vita in galera.
un film che non ti molla mai, non ti puoi distrarre, e anche a te, forse, resterà un dubbio.
un film che merita molto, buona visione - Ismaele


qui il primo film di Vahid Jalilvand






Jalilvand è particolarmente attento ad evitare il manicheismo e i dilemmi esistenziali si dipanano in un labirinto che non prevede vere dispute nelle quali inchiodare buoni e cattivi. Le condizioni umane vengono tracciate con pochi tocchi e, come ovvio che sia, partendo da sfere culturali e pratiche la posizione di un rispettabile medico prevede al cospetto della società dominante rispetti e credibilità non equiparabili a quella di un invisibile padre di famiglia devastato da problematiche irrisolvibili.
Nel rilanciare il gioco dell'indagine psicologica Kaveh sembre avere come unico confronto diretto quello con la moglie, che provvede ad amplificare l'insolubilità del dubbio, mentre la già fragile ragione di Moosa si imbatte con il venditore del cibo avariato che sarebbe stato fatale per la dipartita del figlio. E, dunque,  la miseria umana di un nucleo si scontra con esistenze non molto più agiate, causando collisioni materiali che appiattiscono e annullano ancor di più classe sociali già marginali.
Le scelte del medico non si ergono a bilance della giustizia nazionale, ma partono piuttosto da una coscienza che fino ad allora, presumibilmente, aveva trovato risposte senza prima porsi domande.
Il regista fa avanzare la storia mettendosi al servizio del suo script, con una pulizia che permette di introdursi negli ambienti della Teheran di oggi, nonché nella testa delle persone che ci vivono e che vediamo protagoniste del film. Un risultato encomiabile e che sa appassionare e al quale è possibile muovere però un'obiezione: la coda che si sofferma sul post-riesumazione della salma è di troppo. Jalilivand vuole provare a superare la sospensione finale tipica di alcuni film di Farhadi, non rinunciando però a tenere seminascosta la certezza che ha dato scaturito il dramma, rivendicando rispetto all'illustre collega un approdo più frontale alla psicologia del suo protagonista. Ma la diretta essenzialità galleggia in una involontaria sottolineatura. Che non preclude però un altro prezioso ritaglio della bandiera di una nazione che è fondamentale mantener  viva nella cinematografia contemporanea.

Il dubbio – Un caso di coscienza ci parla di responsabilità e di ripercussioni – anche terribili e involontarie – che ogni nostro comportamento può avere sugli altri.

Ci racconta il dolore che prova un padre che sente di aver provocato la morte del proprio figlio, la crisi di una coppia (improvvisamente distante ma allo stesso tempo vicina) che ha perso quello che aveva di più caro, i sensi di colpa e le paure che affliggono il medico diviso tra il coprire il fatto e il coraggio di affrontare la situazione con il rischio di perdere il lavoro e la reputazione.
Lo fa attraverso i gesti, gli sguardi, i silenzi e le grida. Potrebbe servire ad alleviare il dolore riesumare il corpo e fare un’altra autopsia volta ad accertare un’altra verità o aggiungerebbe solo sofferenza a sofferenza?
Difficile dirlo. Perché questo film ci sottolinea che la verità è relativa: tutto dipende da quello a cui vuoi o scegli di credere. Questa storia dura ci porta così a riflettere non solo sul mistero della morte, ma anche sulle grandi questioni esistenziali che accompagnano l’uomo. D’altronde come diceva Oscar Wilde: “Credere è profondamente noioso. Dubitare è profondamente avvincente”.

L’autore iraniano compassa lentamente gli spazi vuoti che offrono un asilo claustrofobico ai personaggi con movimenti di macchina misurati che dilatano all’inverosimile io tempo degli impasse che spadroneggiano i tempi narrativi dell’opera. Quella di Jalilvand è una sorta di elegia alle scelte sbagliate, delle elucubrazioni sulle conseguenze che potrebbe aver avuto il risolvere un dilemma nella maniera opposta a quanto fatto in passato. Forse qui un po’ scade, non valutando il flusso degli eventi come sottoposto alla Grazia, rintanandosi leggermente in un antropocentrismo più borghese di quanto il film non voglia essere; anche se, fatta eccezione per qualche sbandata naïf, il discorso sull’uomo come e e l’uomo come si sognava rimane, al netto di tutto, abbastanza interessante e portata avanti con decisione.
No date, no signature riesce a mantenere in equilibrio tutti i discorsi che porta avanti, dalla disamina psicologica del suo protagonista fino alla parte più thriller, il tutto danzando sull’orlo dello smielato ma senza caderci e soprattutto con l’abilità ditrasmettere la forza emotriva dietro di sé con semplicità. Sebbene la sua filmografia conti appena un paio di film e null’altro, chi scrive è sicuro che Jalilvand possa già considerarsi un autore in piena regola, al cui futuro andrebbe prestata molta attenzione nei prossimi anni.

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