domenica 3 dicembre 2017

Happy End – Michael Haneke

un'impresa familiare, un mondo alla fine della sua potenza sta per uscire di scena, non ce la può fare.
altri verranno, questione di tempo.
l'uscita di scena è sempre terribile, sia per un mondo che per le persone che si avviano al disfacimento, e da più in alto si cade più fa male.
non c'è niente da ridere, l'ottimismo non è possibile, siamo stati abituati a crescere, non ci si prepara all'uscita di scena, sarà che si pensa tocchi sempre agli altri, sarà per un (piccolo o grande, chissà) delirio di onnipotenza.
grandi attori, dalla più giovane al più vecchio.
un Haneke minore, dicono alcuni, non è vero, secondo me.
comunque un film da non perdere, al cinema - Ismaele







La pulsione di morte associata all’altissima borghesia europea, tra concerti di violino e feste di famiglia sfarzose, dove si concludono affari milionari per opere pubbliche fallimentari e dove il razzismo incipiente sgorga da ogni situazione… beh, sembra una metafora talmente tanto banale da risultare quasi stucchevole. Ok. Siamo alla caduta dell’impero romano, i sentimenti sono morti (figurarsi l’amour…), i funny games sono di glaciale violenza (figurarsi se sono i più giovani a reiterali…) e l’happy end è servito (in un ennesimo coitus interruptus con la morte). E sia chiaro: alle soglie del tredicesimo film il punto non può essere certo quello di stabilire se Haneke sia o meno un bravo regista, un grande Autore, un fine intellettuale, o fate voi… a ognuno i suoi giudizi ben argomentati. Il punto è che un film come questo crea dapprima una siderale distanza emotiva tra (e verso) i suoi personaggi, usandola poi come una clava ammonitrice verso il suo spettatore. Il cinema è perennemente usato, frustrato, immolato a un fine… e non ha più bisogno dei nostri sguardi.

Come ha ripreso gli effetti di certe pillole della madre su un criceto o un fratellino che è stato fatto nascere per compensare la morte di un fratello maggiore. Nessuno dei personaggi raccontati da Haneke in una serie di sketch e situazioni che solo messi assieme ci offriranno il vero quadro d’insieme, si può dire simpatico, anzi…, anche se in ogni scena si sente tangibile una sorta di humour nero, quasi un’ombra della vecchia borghesia bunueliana (ma Haneke non ci casca nella trappola di farci ridere), che avvolge la disfatta della borghesia dell’epoca Macron-Merkel di fronte a problemi che non sa risolvere, come gli immigrati o la fine del capitalismo tradizionale rispetto a quello delle banche
un’opera difficile e molto ragionata. Non a caso Haneke la usa anche come manifesto. Difficile pensare a qualcosa di più lucido e di più chirurgico che la descrizione del crollo della borghesia europea a Calais fatto da Haneke. Come se oltre, col mare che ci porta nell’Inghilterra della Brexit, non si potesse più andare. Attori, a cominciare da Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert, strepitosi.

tutto si scioglie nel finale, nel poderoso pranzo vicino al mare. A quel punto, quando alla porta del ristorante bussa un gruppo di rifugiati sgomberati dalla Giungla, l'enorme campo profughi di Calais, a quel punto, dicevamo, la realtà irrompe nella sceneggiata di famiglia. Lì, noi stessi, pubblico attonito che ha seguito senza un battito di ciglia questo odioso gruppo di personaggi completamente in balìa delle difficoltà quotidiane, ritroviamo il bandolo della matassa. A quel punto, senza svelare troppo di una sequenza finale a dir poco magistrale e che merita di essere vista senza anticipazioni, si apre davanti a noi il senso dell'uomo contemporaneo secondo Haneke. Solo che stavolta, di fronte all'ultima inquadratura, ci lascia con una mezza smorfia sul volto. Non un sorriso, certo. Più che altro la reazione a un'ennesima trovata grottesca capace di trasfigurare la scena. E dunque, eccolo il lieto fine promesso dal titolo: la farsa torna a diventare vita vera, anche se non si può certo parlare di un "e vissero felici e contenti".

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