giovedì 3 agosto 2017

Melancholia – Lars von Trier

sappiamo che la nostra vita finirà, è normale, pensiamo e lo è, ma non cambia praticamente niente nella vita di tutti i giorni.
quando sai che la data di scadenza, con grande precisione, è fra pochi giorni, allora cambia tutto.
non puoi più controllare niente, succederà quella cosa, finale.
i personaggi del film sono tutti lì, in attesa, girando la faccia, non ascoltando, sperando, poi non c'è niente da fare.
qualcuno non ce la fa, ad aspettare, per qualcuno sarà una liberazione dai tristi pensieri quotidiani, i bambini non capiscono bene, non hanno niente da perdere, tutti aspettano.
e quando tutto questo lo vedi in un'opera dove la profondità dei personaggi è davvero buona, lo spessore del ragionamento fatto sopra appare con una chiarezza e una terribile bellezza che hanno solo le grandi opere d'arte.
cercatelo e godete e soffritene tutti, è davvero uno di quei film che resisteranno al tempo, sicuro - Ismaele







…Rasentando le logiche dell'incubo in una stridente intensità che accorda lo stato d'animo dello spettatore a "l'epoca dei miracoli crudeli" di Von Trier - con l'accompagnamento di una fotografia sontuosa e del prologo al "Tristano e Isotta" di Wagner - è un'ouverture grandiosa e solenne che non lascia spazio a speranze alcune: piogge di uccelli morenti, piedi che affondano in un terreno marcio, Melancholia che infine distrugge la Terra.
Nella sua abbagliante bellezza questo prologo, composto da tableau vivant che decidono d'animarsi, offre uno dei momenti più estetizzanti del cinema degli ultimi anni. Con buona pace di trascurabili interpretazioni psicologistico-biografiche circa l'autore è importante invece restare aderenti al tessuto del filmato. Al cammino delle due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg), verso l'inevitabile morte….
 Il solco naturale della morte è l'orizzonte di "Melancholia", o meglio: lo scarto abissale tra la certezza della propria morte e la certezza nella data della propria morte. Nel primo caso l'uomo conduce la propria vita come fosse immortale, nel secondo è chiamato ad affrontare la sua più intima natura, quella dell'essere votato alla fine. Dell'essere un destino di morte. Se perciò il sentiero è già intrapreso è il cammino tutto ciò che conta….


Von Trier non ci parla della Fine ma dell' Attesa della Fine. Melancholia finisce dove di solito tutti gli altri film catastrofici iniziano.
Melancholia racconta l'apnea, non il momento in cui si affoga.
Perchè, e Von Trier lo sa, l' Uomo non ha tanto paura della morte quanto del saper di dover morire.
Si parte con un prologo in cui per la seconda volta (dopo Antichrist) il regista danese ha il coraggio di sfidare la perfezione, la maestria di regalare poesia alla morte, bellezza al terribile.
Ma è solo un momento, le immagini festose di un matrimonio da favola sostituiscono quelle terribilmente evocative del prologo.
Ma è solo un momento perchè in quel matrimonio festoso non c'è niente da festeggiare. Perchè è la Depressione l'invitata principale. Perchè come La Maschera Rossa di Edgar Allan Poe la Depressione alla fine entra nella festa ed è lei l'unica a ballare. Quella Depressione ha un nome, Justine, la sposa…

… Costantemente fuori misura, disinteressato alle strategie di immedesimazione classiche, noncurante di ipotesi realistiche, capace di passare dal calligrafismo videoartistico all'immersività della macchina a mano, punteggiato da un montaggio cubista che vive lo spazio prima di inventarlo, e dunque sorretto letteralmente dal sonoro, Melancholia è puro cinema della sublimazione, stilisticamente eclettico (l'immediatezza non conosce rigore), gonfio di toni eccessivi e contraddittori, generoso nello sciorinare referenti (il dialogo con Tarkovskij è incessante), nel donarsi alla semplicità dell'interpretazione. Dramma (anti)borghese, fa tabula rasa di ogni scena quotidiana, getta in abisso ogni rappresentazione, ma si risolve – comunque - in un atto di creazione: e mentre Justine realizza con il nipote la capanna da questi anelata, mentre si stringe al bimbo e a Claire intanto che Melancholia accende di fuoco e spegne  questa Terra senza dio, comprendiamo come questo rito non passivo, non subito, non cieco, gesto ultimo di delicata e sublime futilità confermi, a livello simbolico, l'essenza attuale del fare cinema per LVT: il suo essere pratica serenamente inutile, il suo essere vitale, taumaturgica necessità. Perché Melancholia, a anni luce da postmodernismi e chincaglieria di sorta, è cinema responsabile, che non irride la materia di cui diviene incandescente, che non prende distanze sardoniche, ma brucia. Vetta, insieme al gemello perturbante Antichrist, di una filmografia che lentamente rinuncia alla consapevolezza retorica esibita (così come Justine rinnega gli stratagemmi della retorica  pubblicitaria) per farsi lampante rigurgito espressionista. Perché Melancholia è cinema privo di filtri. Ed è un letterale atto di passione…

 Il primo capitolo di Melancholia è formidabile, niente da dire. Siamo da qualche parte del Nord Europa, forse in Danimarca, forse in Svezia o in quella parte di Scozia che, come in Le onde del destino, si affaccia sul gelido Mare del Nord. O forse siamo sul Baltico, chissà. La neosposa Justine e il marito si stanno dirigendo verso il castello dove li attendono gli invitati per il ricevimento di nozze. Solo che la limo nuziale si impantana, il sentiero è troppo stretto, gli sposi sono costretti a mollarla in mezzo al bosco e farsi l’ultimo pezzo di strada a piedi. Justine arriva in ritardo al party, e l’abito bianco è irrimediabilmente schizzato di fango. Dal prologo del film (immagini che sono debitrici, assicura la mia amica E., alla videoart di Bill Viola) avevamo già appreso che lassù il pianeta Melancholia è impazzito e rischia di schiantarsi prossimamente sulla terra, ma gli invitati e i festeggiati sembrano rimuovere la faccenda, si beve e canta e balla come sul Titanic dimenticando volutamente la possibile tragedia che incombe…
Justine sembra risalire lentamente dalla sua catatonia e arrivare quasi a una stoica, serena accettazione di quello che potrebbe succedere. La più turbata adesso è Claire, che osserva compulsivamente il cielo e segue sul web le ultime news, non c’è più traccia in lei della razionalità di cui aveva dato prova nella prima parte. Come se tra le due sorelle si fosse verificato un misterioso scambio di fluidi psichici. Compaiono dei barbiturici, e capiamo che qualcuno ne farà uso (è come con le pistole: insegnava Cecov che quando compaiono in un racconto o in una pièce prima o poi spareranno). Ma l’attenzione è tutta rivolta a Melancholia, che man mano si allarga all’orizzonte fino a inghiottirlo tutto e ad incombere sul gelido castello in Danimarca (Elsinore?) e i suoi residui ospiti. Von Trier prende molto sul serio la cosa fino a sfiorare qualche volta il ridicolo, però quelle immagini del gran pianeta ti si fissano dentro, e non te le scordi. Silenzio, ovviamente, sul finale.
In questa seconda parte del film non c’è una storia forte come nella prima, un asse narrativo vero, solo un mescolarsi di angosce o di opposte reazioni al disastro in arrivo che però non si struttura mai in racconto. Disturba ma anche avvince, di Melancholia, il pensiero magico che sembra dominarlo tutto, la regressione da parte del suo autore a una paura di fine del mondo e dell’apocalisse di stampo premoderno. Melancholia cancella ogni fiducia e ogni speranza nei lumi della ragione, ripiomba in una dimensione arcaica e mitica, ci riporta a un’oscurità altomedievale popolata di cosmologie e cosmogonie e corripondenze simboliche tra gli astri e le vite umane. Lars Von Trier è un alchimista, e firma il film più magico degli ultimi tempi. Peccato che sia molto difficile credergli.
P.S. Non ho accennato alle dichiarazioni sciaguratamente antisemite e filonaziste che Lars Von Trier fece a Cannes proprio durante la conferenza stampa per Melancholia, e che gli costarono l’ostracismo dal festival quale persona non grata. Penso che le idee, anche le più nefaste di un autore, non c’entrino con la sua opera e non debbano infuenzarne il giudizio.

…Il film è di una bellezza geniale.
L'emotività espressa, i silenzi ancora più che i dialoghi, convergono armonicamente verso l'obiettivo che il regista si è prefissato: la creazione di un film che è uno stato mentale.
L'uso dei tempi e degli spazi, l'atmosfera surreale, accompagnata a una colonna sonora vibrante, catturano lo spettatore e lo immergono all'interno del film senza chiedere il permesso.
Il film, a mio parere, è una delle esperienze che più si avvicina all'incarnazione della sofferenza psichica depressiva.

…It appears that the two sisters exchange personalities, but to no great effect. Maybe the approach of an overwhelming event has dissolved the membranes of personalities. Notice how Jack, the ad man, continues to place importance on his ad slogan. And how Gaby lashes out at the very notion of a wedding or a party. There is displacement here that is frightening.
In any film involving the destruction of the globe, we know that, if it is not to be saved, there must be a "money shot" depicting the actual cataclysm. I doubt any could do better than von Trier does here. There are no tidal waves. No animals fleeing through burning forests. No skyscrapers falling. None of that easy stuff. No, there is simply a character standing on a hill and staring straight at the impending doom, as von Trier shows it happening in what logically must be slow motion, with a fearsome preliminary merging of planetary atmospheres.
Violent death is often a shabby business in the movies. It happens in depressing bedrooms, bloody bathtubs, shattered cars, bleak alleys. Its victims are cast down empty of life. Here is a character who says, I see it coming, I will face it, I will not turn away, I will observe it as long as my eyes and my mind still function. Is it fair of me to speculate that von Trier himself regards death in that way? He tends to be grandiose, but if one cannot be grandiose in imagining one's own death, then when is grandiosity justified?

…el director danés juega una carta de predestinación que recuerda lo que se ha visto muchas veces en el género fantástico, desde “The Dead Zone” hasta “Final Destination”. Pero, en este caso, la treta le sirve también para realizar un profundo análisis psicológico de un personaje que, a fin de cuentas, tiene todo el derecho de sentirse como si el mundo se fuera acabar, porque proviene de una familia altamente disfuncional que no duda en manifestar sus conflictos internos (como se demuestra durante la escena de la comida, en la que sus padres hablan públicamente del desprecio mutuo que sienten, y que remite de inmediato a “The Celebration”, otra excelente obra del movimiento Dogma en el que Von Trier se inició).
Este exhaustivo cuidado por los personajes no es lo único que separa a “Melancholia” del típico producto hollywoodense. Lejos de presentar los sucesos desde una perspectiva masiva y predecible -es decir, con edificios que se derrumban y multitudes que corren en desesperación-, la cinta se aparta completamente de las ciudades y, en su última parte, se rodea únicamente de cuatro personajes para lograr con ello que el enfrentamiento a la situación resulte mucho más intenso e íntimo...


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