mercoledì 5 luglio 2017

Sakebi (Castigo) - Kiyoshi Kurosawa

dopo The Cure KairoSakebi è il terzo film di Kiyoshi Kurosawa che vedo, gli altri due sono straordinari questo è solo un bel film.
come in The Cure protagonista è un poliziotto in un'indagine con fantasmi, i suoi, ma non solo.
un film da non trascurare, non dare niente per scontato, fatti guidare da Kiyoshi - Ismaele






…In Retribution Kurosawa torna a narrarci di una società prossima alla fine del mondo, di una compensazione in vita umane richiesta sia dalla natura sia dai reietti. Tokyo sembra un grosso cantiere in cui gli edifici vengono costruiti e distrutti a ciclo continuo; l’acqua del mare affiora e sembra volersi riprendere ciò che le è stato tolto. E proprio in pozze di acqua marina vengono ritrovate le vittime (l’acqua per i giapponesi è simbolo di morte, non ha valenze materne o di rinascita). La società appare come un conglomerato di distruttori indifferenti, che lasciano morire tutti coloro che li circondano ed il loro habitat. Il fantasma della donna in rosso, morta per ignavia altrui, è solo la metafora sanguigna di un senso di colpa caparbiamente rimosso, ma anche l’annunciatore di una fine prossimo ventura che non lascerà via d’uscita (”Io sono morta. Dovete morire tutti”). Insomma, l’ennesimo film sulla fine del mondo preannunciata dall'arrivo di fantasmi…

...Non solo Yoshioka, ma tutto il mondo che lo circonda è destinato alla morte e alla solitudine, disperso in una città fantasma – il senso di vuoto delle metropoli descritte da Kurosawa è uno dei tratti peculiari del suo cinema e una della anomalie più sconvolgenti della messa in scena degli ultimi anni – che non dà rifugio e ristoro, ossessionato dai sensi di colpa e dalla propria fallacia.
“Muoio, affinché anche tutti gli altri muoiano” sentenzia la voce fuori campo finale, e mai come in questo caso Kurosawa aveva svelato in maniera così priva di ambiguità le sue intenzioni poetiche ed estetiche; la morte come estremo momento di relazione umana, ultimo appiglio per quella spasmodica ricerca del senso del proprio essere al mondo che attanaglia letteralmente i protagonisti delle pellicole del cineasta nipponico. Morte non come negazione della vita ma come suo completamento, istante unico in cui si può forse comprendere le azioni compiute.
Forse, perché il cinema di Kurosawa non si permette il facile lusso di attribuire risposte certe ai quesiti portati a galla. Peccato che chi ancora insegue l’ombra di un cinema di genere adagiato nei solchi di un binario già prestabilito continuerà imperterrito a negarne la grandezza. Chissà, forse giorno verrà…

Kurosawa opera una scelta esattamente a metà tra la sua capacità narrativa superiore, e per molti versi ermetica, e la spinta divulgativa che opprime i cineasti asiatici della sua generazione, nel tentativo di uscire dalla frontiera di un cinema bellissimo ma comprensibile solo in parte ad un pubblico, e in alcuni casi persino una critica, che non si prende la briga di documentarsi o semplicemente di lasciarsi andare al racconto e ai ritmi interiori di cui questo si fa portatore. Come nell'ultimo Tsukamoto, anch'egli alleggerisce i contenuti rendendoli fruibili, ma rifiuta apertamente la scappatoia degli spiegoni finali, lasciando lo spettatore da solo a fare i conti con il materiale emerso nel corso della narrazione. E se pure è vero che la scelta finisce per non accontentare nessuno, siamo comunque di fronte a una tale superlativa regia da far dimenticare tutto il resto e da spingere a rivedere i magici fotogrammi che soli raccontano la storia abusata dell'ultimo cinema di fantasmi che abbia ancora qualcosa da dire.

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