venerdì 14 aprile 2017

Sul Globo d’Argento (Na srebrnym globie) – Andrzej Zulawski

ho guardato questo film solo tre volte, nell'ultimo mese, ho saputo della sua esistenza da poco, l'ho trovato in rete (qui i sottotitoli italiani).
proiettato a Cannes nel 1988, in una versione non completa, era stato girato una dozzina di anni prima, poi interrotto e distrutto in alcune parti (anche in Italia in quegli anni i film venivano bruciati dalla censura,  in senso non figurato, si pensi a Ultimo tango a Parigi).
il film di Andrzej Zulawski è un cinema-mondo, siamo all'altezza di capolavori come E' difficile essere un dio, di Aleksej German (con il quale ha dei punti di contatto), o dei film di Andrei Tarkovsky, per rendere l'idea.
dicono che è cinema di fantascienza, io dico che è Cinema dei piani alti, senza bisogno di troppi aggettivi .
non è facile trovarlo, ma lo sforzo per la ricerca è tempo ben speso, promesso.
per avere un'idea di come agisce sugli occhi e nella testa di chi lo guarda, date un'occhiata alle recensioni che ho messo più sotto.
buona visione - Ismaele










Ci sono dei film.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che sarebbe impossibile (e sbagliato) riuscire a condensare, a riassumere, a rinchiudere entro determinati schemi.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, per cui ogni parola è ingiusta, perché sfuggono a qualsiasi controllo, perché sono più belli di qualsiasi cosa che si potrebbe esprimere, dire o affermare.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che non richiedono altro se non di lasciarsi vivere, perché conservano una potenza intatta e disarmante, una rabbia devastante, un'idea di cinema che è già pronta a scavalcare tutto il resto.
Idea di cinema che si traduce in un gesto filmico reiterato, in una visuale distorta, eccessiva e grandangolare (se non deforme perfino fastidiosa, insinuosa e sensuale, definitiva, innamorata eppure così dolcemente aurorale). 
Aprire gli occhi.
Guardare.
Tornare a sorprendersi per tutto, proprio tutto e aver paura, immemori di inizi e di finali, dimentichi della direzione del film perché ormai non è più "solo" un film. Lasciarsi trasportare, perdersi forse, e amare fino in fondo quella perdita, quella mancanza, quel disagio che è, è stato, e sarà l'Opera vera, lontana, irraggiungibile.
Guardando "Sul Globo D'Argento" si ha come la percezione di un tempo che scorre diversamente, di un modo di intendere il cinema, l'immagine, la Storia, l'umanità, completamente fragile, umano, devastante. Il film è tutto lì, nella sua stessa incompiutezza, in quelle parole pronunciate da Zulawski mentre vaga per strade polacche: la parte "aggiunta" rappresenta una riflessione gigantesca sul cinema in grado di sconfiggere tutto il resto, su un "atto di resistenza" che va salvaguardato, protetto da qualsiasi fattore esterno, da qualsiasi regime o proibizione.
Ciò che sorprende è il continuo disorientamento operato da Zulawski, il suo imperterrito abissale far sentire fuori posto lo spettatore, che diviene nomade in un altro regno della visione, più oscuro, più ignoto perfino più doloroso. Come un Tarkovskij virato in blu, pregno di rabbia e risentimento, che ha bisogno di urlare, perché crede nel corpo prima di tutto come movimento instabile, come possessione che domina la carne, come continuo, inafferrabile momento della verità. La parola, componente fondamentale del film, assume un aspetto fondamentale, quello di una carnificazione del sentimento, una sorta di protesi stessa del corpo. 
Non è cinema che si racconta perché "Sul Globo D'Argento" è un film che si può solo sentire (e subire e assorbire) sulla propria pelle, che richiede allo spettatore di perdersi in un regno che non può che essere dominato dal caos. Che poi sia l'intera storia umana il manifestarsi animalesco, bestiale di quel caos è la teoria zulawskiana: la nuova civiltà nata da un sogno generoso è condannata a essere un doppione della storia della Terra. Questo è il film sull'inevitabilità della catastrofe, sul fatto che tutto avvenga - e avverrà - allo stesso modo, con le stesse facce, all'interno dell medesimo mito aurorale, della medesima grande dimora.
Si arriva addirittura a esistere e a rivivere all'infinito solo in virtù di una grande storia d'amore e dolore. Ognuno è, è già stato e sarà, poiché ci assomigliamo tutti e non siamo altro che l'ennesima versione di un mito iniziale (ma non era questa la premessa geniale anche de "La terza parte della notte", splendido esordio di Zulawski?): come doppioni infiniti, estreme copie di un "vecchio uomo" primordiale. Ecco dunque l'immagine Cristica di un regno della sofferenza, dove l'avvenire si configura come il nostro stesso passato. Ogni demone, ogni Shern, siamo noi. Ripenso al "Diavolo" e all'inevitabilità del male, alle proiezioni dell'inconscio, alle paure che prendono forma, alla possessione e al mostro ipodermico che è in noi ("Possession" e l'angoscia insostenibile di chi ha scambiato il bene con il male, di chi si è corrotto in un mondo capovolto e scivola nell'equilibrio instabile del caos).
Da spettatori siamo infine chiamati a vedere-non vedere e completare: radiografia dello sguardo o forse indagine del cuore. E ritrovarsi testimoni di ogni domanda, di ogni lamento, di ogni urla e convulsione, mentre si assiste (disorientati) a un video registrato prima del tempo, a una visione per cui non si è mai troppo pronti.
E' meraviglioso pensare che esista tanto cinema così grande da scoprire.

Sul globo d’argento è basato su una trilogia di romanzi del prozio del regista, Jerzy Zulawski, che racconta di una missione terrestre di un gruppo di scienziati in fuga su un altro pianeta, alla ricerca di un’ agognata libertà.
Il film segnò un ritorno per il regista nella sua nativa Polonia, da cui era fuggito dopo la censura da parte delle autorità del film Diavolo. Purtroppo, quando fu nominato un nuovo ministro della cultura, i timori di Zulawski tornarono ad essere una dura una realtà: la trama del film fu infatti subito interpretata come un’allegoria per la lotta della Polonia contro le autorità sovietiche, e fu ordinato di distruggere la pellicola.
Fortunatamente Zulawski aveva già completato l’ottanta per cento del film, e non riuscirono mai a distruggere l’intero filmato. Utilizzando una voce fuori campo per colmare le evidenti lacune, il film fu mostrato ad un pubblico riconoscente al Festival di Cannes del 1988, ma naturalmente non fu e non è tuttora facile da seguire.
Sul globo d’argento è come una rivisitazione futuristica della vita ai primordi sulla terra, con i numerosi tentativi di sopravvivenza degli scienziati che strabordano poi in un clima politico, mistico sacerdotale… culto religioso che se inizialmente sembra avviare la nuova razza verso una ricostruita e pacifica civiltà, alla fine porterà solo e soltanto verso un caos totale di completa devastazione.
La regia è come un tornado, uno tsunami frenetico dove le riprese sembrano provenire direttamente dagli abissi, una fotografia fredda e atonale rende i personaggi come fantasmi di una società altra, perduta e risucchiata nelle viscere della propria sudicia depravazione.

Il lato tecnico dell’opera però è il vero fulgore dell’opera: poche volte nella storia del Cinema si è vista una regia così convincente e straordinariamente attinente a quanto illustrato: Zulawski qui mette in scena, attraverso una direzione a spalla movimentata ed estenuante, il suo vero e proprio istinto delirante che tanto lo ha contraddistinto nelle pellicole precedenti. Ogni ripresa ha come unico scopo quello di destabilizzare ed inquietare lo spettatore, ogni inquadratura è stonata e paurosamente inquietante in tutta la sua follia. I colori sono sempre bui e foschi, passando dal blu scuro dei sempre presenti mare e cielo al nero più pieno delle grotte e del buio dilagante, il che simbolizza e sottolinea quel clima di negatività e di orrore che è lo scopo primo del regista. Ma ancora a rafforzare tutto ciò i dialoghi sono un’altra prova di quanto appena detto: onnipresenti, lunghi ed interminabili, e soprattutto quasi sempre privi di senso o talmente astrusi nella loro eccessiva ridondanza logica, quasi arcaica, da risultare inevitabilmente estenuanti e faticosi da sopportare, il che in fin dei conti contribuisce a mettere la vicenda in secondo piano svalutandone la parte puramente dialogata.
La follia destabilizzante di Zulawski diventa infine il metro di giudizio della stessa follia umana, il contrappasso che l’autore riserva al suo spettatore nonchè la spirale ultima di un mondo in rotta, comandato dall’insanità e, come ci spiega il maestro stesso, succube della stessa, incatenato ad i propri vizi come una bestia al proprio istinto famelico. In questo senso “Sul globo d’argento” può essere considerato come uno dei più grandi film realisti in chiave distopica, un’opera proprio per questo necessaria e fondamentale, arrivataci purtroppo ai giorni nostri vittima di enormi, vistosi tagli di lavorazione e censura.

…Resumiendo mucho lo narrado, podríamos dividir su argumento en tres parte: la primera, muy breve (actuando casi a modo de prólogo), introduce a unos cosmonautas que conviven con unos seres humanos que actúan y visten de un modo bastante primitivo (al modo de la Edad del hierro), quienes les prometen entregarles unas grabaciones que están en su posesión; la segunda parte sería la visualización de esas cintas, filmaciones en primera persona (al modo de las actuales cámaras GoPro) de los avatares de tres astronautas que arriban a un planeta desértico, comenzando una labor de repoblación que avanza en el tiempo generación tras generación, lográndose implantar una auténtica civilización; la tercer y última parte cuenta la historia del cosmonauta Marek, que llega a ese planeta con la misión de recuperar las cintas, pero que acaba implicándose con la población nativa en su lucha contra unos siniestros seres negros y alados, pero que acaba descubriendo un complot de dominación del pueblo por parte de la curia religiosa.
La propuesta resulta sumamente atractiva, al poder ofrecer un resumen acelerado de la evolución histórica del ser humano, forjando los cimientos sociales desde los orígenes. La disposición expositiva de este relato adquiere proporciones bíblicas, material y meafóricamente hablando: no solo sus dimensiones se acercan a las de la epopeya, sino que su modelo se basa en las escrituras sagradas del cristianismo, pudiéndose identificar en su argumento trasposiciones de personajes propios de la tradición y mitología de la cultura occidental, tales como Adán y Eva (los cosmonautas que procrean por primera vez sobre la superficie de ese planeta), Caín y Abel (los hermanos que se retan a muerte por el control del linaje), Moisés (aquel que cruza las aguas para liberar a su pueblo de una tiranía impuesta), Matusalén (el ancestro que, a ojos de los jóvenes nativos, remite a sus orígenes debido a su extensa longevidad), etc. Pero todas estas referencias también coexisten con otras manifestaciones antropológicas, pudiéndose observar asímismo elementos cercanos al chamanismo, los problemas derivados del incesto, los inicios de la mística y las profecías, etc.
Este discurrir estremece por su paralelismo con el de la propia historia de la humanidad tal y como se produjo en su día, observándose la consecución de acontecimientos como una imperiosa necesidad basada en la relación causa/efecto, donde el poder va derivando poco a poco del líder político y militar a una curia religiosa, cuya función es la del control social a través del miedo. Es el momento en el que aparece en acción el cosmonauta Marek, que adquiere el rol de caudillo unificador en medio de una lucha de poder entre distintos intereses políticos. La suya se acerca a la historia narrada por los hermanos Strugatskiy en su novela Qué difícil es ser Dios pues, por sus mayores conocimientos intelectuales y tecnológicos, el terrícola adquiere una inevitable relevancia en una sociedad con aspectos propios de la Edad Media, definida a través de la imposibilidad de abandonar la barbarie. Su liderzgo se verá reforzado por aquellas profecías que anunciaban su venida, lo que emparenta su figura con la de Cristo. Y, al igual que Jesús de Nazaret, él también sucumbirá a los intereses de aquellos de reforzar su figura y su legado a través del martirio, rematándose su presencia en aquel planeta con su sacrificio en forma de crucifixión…

Imagine a strange, existentialist Tarkovsky sci-fi movie, filmed with the usual babbling histrionic and primal acting by Zulawski, with an endless stream of bizarre Jodorowsky-esque costumes, mysticism and dialogue, and all this presented in fragmented form because the film was shut down before it was completed. The result is as insane as it sounds. This 2.5 hour movie seems to tackle nothing less than civilization and humanity, tracking the progress of some astronauts colonizing another planet with visitors arriving to monitor their progress. At first, the film is like a fragmented film-diary, filming the deterioration of the first astronauts, their children growing up abnormally fast and cultivating a new primitive culture that worships the slowly aging originals. Throughout the film, all characters combine Zulawski's trademark primal acting with endless, pretentious and often impenetrable dialogue, rants and soliloquies, examples include "Ultimately, every reaction to physiology is the fascism of the soul" and this exchange between father and son: "What is Earth?", "Earth is what I feel for you". The film-document then presents a series of scenes and snippets as the new civilization develops, forming new tribes, rituals, very bizarre and constantly changing costumes, very violent behaviour culminating in crucifixions and grotesque impalements on 50-foot poles, new religions, and even strange offshoots of biology with bird-like creatures and other mutations or diseases, the characters moaning existentially and philosophically about what they have done or have learned, all of this giving the feeling that millennia are passing. The missing film fragments are narrated from the screenplay while footage of modern Poland is shown, demanding parallels to be drawn with our society. In short, a mostly impenetrable and tediously pretentious, but unique, atmospheric and sometimes interesting creation.

L'idea che il cinema possa, consciamente, ricreare un tentativo di origine dell'umanità, o forse di origine della società moderna, ecco, sì, meglio, è stupefacente; farlo partendo (con il tramite) da un genere letterario è ancora più ambizioso. Ecco, Zulawski è in grado, con la fluidità (ahaha) di due ore e mezza di grande cinema, di metterci di fronte alla domanda: Come siamo arrivati al punto in cui siamo ora? Come abbiamo fatto a complicare tutto così tanto (e bene e male, insieme)? Il regista polacco tocca quindi i temi più grossi e inspiegabili e propri della natura umana, e quindi religione, potere, paura e controllo, desiderio, verità, felicità, vita in senso stretto e morte. E lo fa con una prima parte, un quasi Interstellar girato come Blair Witch Project vent'anni prima, estrema e originalissima, con questa idea del mockumentary che arriva sulla terra e che gli scienziati decidono di guardare. La storia di Marta e Piotr e Jerzy, in cui la violenza e la religione sono viste come forme imprescindibili della realizzazione umana, è sconnessa (oltre ai limiti di narrazione dovuti alla Storia) e incomprensibile nella sua complessità e chiusura al pubblico; eppure ciò che succede in scena e ciò che i personaggi gridano e provano non sono elementi alieni al nostro inconscio, anzi, al contrario sono particolari che stimolano la nostra memoria emozionale e umana (intesa come propria dell'umanità, sovrapponibile alla Storia). La verità, la Pravda, è forse il tema portante di tutto Sul Globo d'argento; lo è la sua ricerca, ma anche la sua incomprensibilità; Marek e Jerzy, nel tentativo di raggiungerla, sono derisi e sconfitti, e loro stessi provano indicibile pena e sofferenza nella missione di ricostruire e regnare una società che escluda da sè i propri aspetti peggiori. Gli Shern, unici e veri depositari della verità, sono i nemici, e ciò che dicono non deve essere compreso per non impazzire, per non essere segnati col marchio delle divinità cadute e non più sagge. Aza-Ihazel-Marta, la madre, la potenza generatrice, è l'elemento che, venuto a mancare, provoca grandi scossoni e infinite incomprensioni. Finalone, fuori dalla scena, da pelle d'oca.
Certo è che il capolavoro di Zulawski è lontano dal poter essere definito un film completo, ma anche solo connesso e comprensibile; quello che è chiaro è il suo fascino irresistibile, la grandiosità delle immagini e l'ambizione del racconto. Questo è tutto.

…La grande epopea filosofica di Andrzej Zulawski è un'opera di straordinaria potenza visiva. Dai continui movimenti di macchina ai numerosi costumi di scena, dal viraggio blu della pellicola alle esasperate gestualità dei personaggi; tutto, in Na srebrnym globie, è stato pensato per restituire allo spettatore un'esperienza tanto intellettuale quanto fisica. È una provocazione dei sensi diretta e continua, come testimoniano i numerosi camera-look che, superando il piano della diegesi, entrano in contatto con il nostro sguardo. Ed è proprio così che il gesto autoriale del cineasta polacco svela tutta la forza del suo cinema che, attraverso la la chiamata in causa dello spettatore, rende il tutto ancora più doloroso, più vero.
Più vivo.
Nonostante la feroce censura e la materia sovrabbondante ed estrema, Zulawski è riuscito a mettere in scena un'opera di straordinaria potenza e, all'interno di essa, ha potuto dare sfogo alla follia e alla disperazione dell'umanità. 
Sul globo d'argento è un esperimento cinematografico inclassificabile, ai limiti del cinema stesso. Un'esperienza che si trasforma in un grido di disperazione e di violenza.
E, quasi senza accorgersene, ci ritroviamo anche noi su quel pianeta, a contatto con quella civiltà primitiva che non è altro che lo specchio del dramma della nostra vita.
da qui

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