sabato 9 gennaio 2016

La grande scommessa - Adam Mckay

questo è un film politico, racconta le cose come sono davvero, un mondo in mano a dei delinquenti che spiegano a tutti cosa è la virtù e le ricette per essere virtuosi.
ed è un film dell'orrore, anche se uno non è economista (che comunque aiuta) capisce quello che non aveva mai capito, i mutui subprime, le bolle, i derivati, e le conseguenze per tutti, 
poi uno si fa l'idea che il nostro sistema economico è criminogeno, e che il poker, al confronto, sia un gioco che si fa nei monasteri, e magari non sbaglia, ma questo, forse, è un altro discorso.
il film sembra un po' freddo, perché a volte è tecnico, ma tecnico deve esserlo per forza, è inevitabile, per capire la realtà della bolla finanziaria.
gli attori sono tutti bravissimi, e assolutamente incredibile è vedergli in faccia lo stupore quando scoprono quanto tutto è truccato, come quei titoli sono la madre di tutti gli imbrogli.
il film sembra un thriller, e il tempo un protagonista.
da non perdere - Ismaele





nel mondo raccontato da McKay i valori etici e il senso di responsabilità sembrano sconosciuti: tutti appaiono come eterni adolescenti resi ciechi dalla prospettiva dei folli guadagni. E più il regista  gioca col cinema, più la desolazione morale risulta evidente. Perché, spiega il mentore pentito, per ogni singolo giochetto di Wall Street la vita e il lavoro di milioni di persone sono a rischio.
Non solo. L’affondo finale del film riporta il castello di carte ricostruito con tanta abilità a uno scontro umano, alla scelta personale che Baum è obbligato a compiere al termine della sua crociata: deve far guadagnare i suoi investitori sul crac, come gli altri. È l’America, bellezza: c’è sempre chi vince e chi perde. Ma l’onesto e amaro epilogo ci spiega che perdere sono pochi colpevoli e tantissime vittime. Ancora oggi.
Quanto al cast, a dire poco strepitoso, basti dire che sia Christian Bale ( il dottor Burry) che Steve Carrell (Mark Baum) sono candidati ai Golden Globe. Scommessa vinta, Mr McKay? In pieno, e senza lasciare morti sul campo.

…Verboso e nevrotico, il film di McKay è anche punteggiato di alcune riuscite trovate autoironiche, quali la scelta di lasciare le spiegazioni più tecniche a Margot Robbie o Selena Gomez, riprese in contesti vergognosamente deputati al lusso e al piacere, e interpellate col loro nome, "bucando" così la parete della mezza finzione per sconfinare comunque in un altro artificio. 
Alla fine dei conti, però, l'affondo che porta il film alla vittoria, riporta il castello di carte ad un terreno di scontro umano e comune: alla scelta personale che Baum/Carell è obbligato a compiere al termine della sua crociata e all'epilogo storico e giuridico della grande truffa delle banche. Un epilogo onesto e amaro, in cui il tasso variabile che oscilla più spaventosamente non è quello del mutuo ma della morale.

Adesso smettiamola di pensare ai film di Natale, agli incassi di Checco Zalone ai peli di Chewbacca e parliamo di cinema. The Big Short, da noi tradotto come La grande scommessa, anche se la vera traduzione sarebbe ‘Il grande scoperto’, è un grandissimo film.
Lo ha diretto Adam McKay, di solito regista di commedie di Will Ferrell, che lo ha pure scritto assieme a Charles Randolph traducendo in forma cinematografica il complesso saggio di Michael Lewis, dallo stesso titolo, che spiega come si arrivò alla bolla finanziaria che portò al crollo del mercato bancario americano nel 2008 e provocò quindi la crisi che stiamo ancora vivendo in Europa…

Sembra che questa volta Adam McKay abbia voluto fare l’autore, girare un film con un obiettivo molto serio (raccontare davvero e bene cosa sia successo con la grande crisi delle banche d’investimento americane), sperimentare stili di messa in scena diversi dal solito, mescolare soluzioni differenti e collaborare con molti attori di comprovato lignaggio. Il risultato è un tonfo dal fragore proporzionale alle ambizioni. La grande scommessa è la storia (basata su fatti veri) di alcuni uomini che, separatamente o meno, avevano capito cosa stava per succedere prima di tutti. Iniziando a lavorare in previsione del crollo dell’economia con circa 2 anni di anticipo questi riuscirono a guadagnare dalla tragedia finanziaria.
Per mettere in scena questa parabola la scelta di McKay è di rompere continuamente la quarta parete, far parlare tutti con gli spettatori e interrompere di continuo una narrazione che, visti i temi, poteva risultare noiosa.
Il modello principale per tutto il film è The Wolf of Wall Street. Dall’opera di Scorsese La Grande Scommessa deriva la sua associazione tra alta finanza e vita sregolata, nonchè la tendenza all’uso di voce fuoricampo e la già detta rottura della quarta parete, senza però avere quella febbrile elettricità che lega tutto come il migliore dei collanti…
  
dramatizing something as complex as the 2008 financial collapse is an immense undertaking, involving a mass of historical and social questions.The Big Short’s makers have chosen one means of treating it. This film is clearly not the final word. While McKay and the others involved obviously feel sympathy for those devastated by the crisis, the mass of the population is largely absent. Their attitude to capitalism is a critical one, but they are not opponents of the profit system.
However, at a time when most filmmakers seem obsessed with gender, sexuality and race (and themselves), McKay and the others have chosen to treat—and treat trenchantly—one of the critical events in recent times. Genuine credit is due them.

…Il faut dire que THE BIG SHORT ne choisit pas la facilité en multipliant les protagonistes et en faisant croiser les histoires de chacun. L’intérêt étant alors dans l’approche scénaristique de ces personnages – davantage que dans la réalisation d’ensemble qui ne révolutionne rien mais reste d’une efficacité redoutable. Et c’est là que le film se démarque de ses prédécesseurs. Pas question d’être du côté du trader sans scrupule, rapidement enrichi et au final rattrapé par la loi avec l’écroulement de son empire (Loup de Wall Street, Wall Street). Ici, nos « héros » n’ont rien d’extraordinaire. Ils ne cherchent pas spécialement un profit personnel, ce sont bien souvent des inadaptés sociaux. Christian Bale (Michael Burry) est excellent en autiste incapable d’interagir correctement avec les autres.Steve Carell se déchaîne en jouant l’imprévisible Mark Baum, désabusé de la vie et du monde de la finance. Brad Pitt (Ben Rickert) reste particulièrement sobre mais amuse en maniaque calme retiré du monde réel. Dans une certaine mesure, même Jared Vennett, qu’interprète le méconnaissable Ryan Gosling, par son excès d’antipathie, apparaît comme un personnage anormal…

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