mercoledì 23 dicembre 2015

Il ponte delle spie - Steven Spielberg

un uomo contro tutto e tutti, contro tutte le aspettative, riesce a ottenere i suoi obiettivi di liberare due uomini, come nel più classico degli western.
i tempi sono quelli della guerra fredda, i sovietici e i tedeschi dell'est sono peggio degli statiunitensi, sarà un caso, ma il film è un'americanata, ben fatta davvero, Spielberg è un grande del cinema.
poi ce n'è anche per i militari statiunitensi, dipinti come quelli di Stranamore di Kubrick, pazzi travestiti da difensori della patria, nelle loro mani sono i destini di tutti, poveri noi.
come in una partita a scacchi l'avvocato Donovan ( Tom Hanks) non sbaglia una mossa, si crea un rapporto di stima reciproca con la spia Abel, riuscirà alla fine a fare lo scambio sul ponte delle spie, vincendo la partita.
hanno collaborato alla sceneggiatura anche i fratelli Coen, certamente migliorando quella originaria.
nessuno si aspetti cose straordinarie, è solo un film di piccoli uomini in tempi difficili, che ci sono sempre, i tempi difficili di sicuro, ma anche adesso uomini straordinari appaiono (mi viene in mente Edward Snowden, per esempio, non a caso ricercato), un film classico, di quelli di una volta - Ismaele



…La sobrietà di una messa in scena che potrebbe anche correre il rischio di apparire didascalica, ma in realtà rinnova il patto tra Spielberg e il pubblico, quello di un intrattenimento mai sbilenco rispetto al registro adottato. E il registro non ha più nulla a che vedere con le ipotesi da cinema/luna park dei vari Indiana Jones e il tempio maledetto, Hook e Jurassic Park (e in misura maggiore delle sue produzioni per altri cineasti), perché il roboante incedere della Storia è centro e sfondo allo stesso tempo.
Nel cuore dell’inquadratura non c’è mai spazio per il Muro, o per i mirabolanti U-2 dell’aviazione statunitense, ma solo per l’uomo, per le sue contraddizioni, per le sue qualità e vizi. Il resto è materiale da avanspettacolo storico, del quale già si conoscono gli esiti, e che può dunque rimanere nel fuori campo. In questa chiave di lettura, oltre al senso dell’epos e alla potenza dell’immaginario, Spielberg può davvero essere considerato l’unico erede di John Ford tra i registi della New Hollywood. Lo testimonia una volta di più l’ultimo segmento de Il ponte delle spie, dalla nebbiosa alba sul ponte di Glienicke fino a quell’immagine che scorre davanti agli occhi di Donovan mentre si trova in metropolitana. L’ennesimo conflitto nel conflitto, paradosso e immagine riflessa di una Storia che non è mai finita…

Spielberg non si fa mancare un po’ di stereotipi sui demoni comunisti che torturano il pilota con la privazione del sonno (le torture psicologiche dei russi che andavano di moda nell’immaginario della Guerra Fredda), mentre da noi, in America, il russo viene rispettato (gli permettono addirittura di dipingere) ecc.
Non è proprio a senso unico, non cade del tutto nella banalità, non fa un proto-western degli anni ’50 con gli indiani cattivi che attaccano i bravi coloni americani, non si (ci) nasconde che anche quelli della CIA sono cinici, amorali, che cercano con tutti i mezzi di strumentalizzare l’avvocato lincolniano incorruttibile. Col mestiere riesce a restare sulla linea di confine, con qualche caduta nell’estremo, ma controllata. E alla fine, come non ricordare quella battuta, che oggi fa ridere, de I tre giorni del condor, quando Redford dice: “C’è del marcio nella CIA”.
Un po’ di marcio.
Va a finire, pensa lo spettatore paziente e ben disposto, che Steven Spielberg, all’età di 69 anni, ha fatto la sua personale, fiabesca, (per lui?) scoperta… dell’America.

La penna dei Coen trapela in ogni sequenza, mettendo in bocca a personaggi delineati alla perfezione dialoghi tra il filosofico e il surreale, tra l'ironia e la profondità. Certo, manca l'umorismo nero tipico di Joel ed Ethan, ma il contesto (la guerra fredda e soprattutto la sua percezione nel popolo americano) non è certo il più appropriato. Non siamo di fronte al compitino, sia chiaro: ai Coen non sfugge l'occasione per ridicolizzare il patriottismo ottuso e per sottolineare che, in un certo senso, gli americani non esistono: sono tedeschi, irlandesi, italiani; ma è l'accettazione ed il rispetto delle stesse leggi (e conseguentemente dell'individuo) a renderli un popolo. Un concetto che si potrebbe esprimere anche per tedeschi, irlandesi e italiani e che, in questi giorni, si rivela particolarmente ghiotto e privo di grassi, parabeni e discriminazioni di razza, etnia o religione.
 La sceneggiatura dei Fratelli Coen persevera nella difesa dell'individuo affiancando ad Hanks, che regge il peso dell'intera pellicola, un personaggio indimenticabile, quello della (presunta) spia sovietica Rudolf Abel, che, seppur "nemico", si rivela serafico nella sua correttezza e nella sua lealtà. Ed è Mark Rylance, più volte prestato al cinema dal teatro e già candidato ad un Globe per questo ruolo, a rendere Abel ancora più umano e rispettabile. A contrapporsi alla simpatica fermezza di Abel troviamo, ironicamente, la superficialità e l'antipatia del pilota dell'aereo spia statunitense (Austin Stowell), quasi a voler sovvertire i canoni di un certo (e stantio) tipo di cinema di parte…

Il ponte delle spie riesce meglio nelle zone grigie, quando Donovan vede Abel e Powers come patrioti che scommettono sui loro Paesi. Risplende quando Spielberg mostra il carattere del protagonista con l’azione, come quando Donovan va a Berlino dove i cospiratori quasi lo ammazzano. Durante il crescendo che porta allo scambio dei prigionieri sul ponte Glienicke, ci sono poi dei momenti dove si fatica a capire chi sia il buono e chi il cattivo, e la solita roba da spie diventa una potente provocazione.

…di una sceneggiatura monolitica che ci mostra in piena luce episodi complessi e oscuri, e che lo fa con troppe sicurezze ideologiche ed etiche, pochi dubbi, poche o zero sottigliezze capaci di rendere la lunga zona grigia tra il bianco e il nero. Se son stati poi chiamati, com’è successo, i fratelli Coen a trattare e riscrivere almeno in parte la sceneggiatura originaria ci sarà stato un motivo, probabile che lo stesso Spielberg abbia avvertito la necessità di complessificare e stratificare. Ma l’intervento dei Coen Bros. sembra limitato all’aggiunta di una qualche smagliante battuta qua e là, di una qualche invenzione stravagante e di loro tipico lunare surrealismo e però alla fin fine marginale (un critico anglofono, ahimè non ricordo quale, individua come di sicuro segno coeniano la falsa famiglia sovietica di Rudolf Abel, io azzarderei anche la sala cinematografica berlinese con in cartellone Spartacus di Stanley Kubrick e Un, due, tre di Billy Wilder, commedia di spietato cinismo sulla guerra fredda di cui i due fratelli potrebbero benissimo firmare un remake, ma che con lo spirito spielberghiano c’entra poco, anzi niente)…

2 commenti:

  1. mi ispira moltissimo questo film...
    la regia è eccellente, e l'attore principale raramente mi delude

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